L’immagine scontata del critico non è di quelle che destano invidia. I luoghi comuni imperversano, a fronte purtroppo di uno sforzo congiunto di appartenenti alla categoria i quali fanno del loro meglio/peggio per superare le aspettative più grottesche dello stereotipo. L’esempio seminale e commemorativo resta il personaggio di Roberto Benigni nel programma satirico L’altra domenica di Renzo Arbore ed evocato nella prima puntata della nostra rubrica, Istruzioni per l’uso: nei panni del critico cinematografico, il comico più volte rammentava la scena del presidente Sandro Pertini che guardava i calcinacci dei muri più del film proiettato in sala.
Ma si fa presto a sparare sui critici, come sulla Croce Rossa, a fronte di film che realmente imperversano e reclamano l’attenzione maggioritaria se non sui benemeriti “calcinacci” di vecchia data, almeno sui moderni “controsoffitti” (titolo alternativo della rubrica, per chi si fosse perso le suddette Istruzioni per l’uso). C’è sempre l’alternativa del cellulare, della posta elettronica o la rassegna infinita di post, storie e stati sui social consultata in tempo reale con la colonnina rettangolare di luce tra le mani, seminascosta, a battersela al buio con il grande schermo sfidandone il bagliore frontale collettivo. Il suggerimento dei calcinacci e dei controsoffitti è dunque prezioso, perché guardarli non comporta che un giro di pupille, l’inclinazione del collo, il mento erto sul gomito, senza sorbirsi i rimproveri per piccole sorgenti di luci che disturbano quella principale e obbligatoria per tutti, accomodati in fila sulle poltrone.
A vedere cosa, poi? Campi e controcampi automatici che inscatolano battute esageratamente piegate alle esigenze di storytelling banali o banalmente incasinati, dove accade tutto e il contrario di tutto in una vertigine dell’accumulo, tra inquadrature che cambiano per venire incontro ai disturbi dell’attenzione, e per non scontentare come in un supermercato ogni fascia di spettatore accorso o per meglio dire giunto in soccorso del film. Per non parlare dei contestuali sfondi sfocati poiché non ci sono elementi della scenografia, dell’arredamento o dei costumi che dicano qualcosa che non serva a fare da contorno all’azione principale; azione, va da sé, sempre evidenziata in primo piano, centrata, data la composizione “uni-puntuale” del quadro che rende i lati semplici protuberanze da riempire con vuoti o pieni peggiori dei vuoti; laddove ad assecondare l’horror vacui non provveda la moda per fortuna calante del riesumato formato quattro-terzi. Alla carenza di profondità di campo sensata, che quindi la luce diffusa copre e il fuori fuoco inibisce, si aggiunge la scelta fotografica del bianco e nero, assai prezioso quando a colori, con l’illuminazione generica di cui sopra, salterebbe agli occhi un décor impresentabile per l’epoca restituita al minimo sindacale. Sui movimenti di macchina, in eccesso per dire tutto e quindi niente, o completamente assenti sostituendo al rigore il rigor mortis che fa tanto cinema d’autore o festivaliero, c’è ben poco da eccepire, rassegnati, se non rifugiarsi nel vantaggio ancora consentito dal segreto e dall’ombra di alzare provvidenzialmente la vista al cielo o ai calcinacci/controsoffitti che meriterebbero di essere non solo a riquadri (magari a cassettoni come in Quarto potere o C’era una volta in America), bensì affrescati con sequenze mitologiche e religiose, simbolismi pagani e non, quindi rischiarati appena per essere meglio apprezzati.
Si fa presto quindi a prendersela con i critici i quali indossano sempre di più la maschera obsoleta di sé stessi in mancanza di parti in commedia lavorative possibilmente retribuite. Tante responsabilità, ammettiamolo, arrivano dallo schermo su cui persino le commedie e i film dell’orrore superano abbondantemente le due ore, quale che sia la trama, spiegata minuziosamente o tirata per le lunghe, con didascalie per luoghi e date che rasentano il sospetto di problemi cognitivi negli spettatori. Le immagini, sovente e volentieri, ingenerano nell’insieme asfittico o pasticciato, senza soluzione di continuità tra un eccesso e l’altro, come le due facce di un’unica medaglia desolante, il bisogno compensativo di guardare da qualche altra parte pur di arrivare alla fine del film, impossibilitato com’è il pubblico a godersi anche l’ex intervallo, riassorbito all’occorrenza e cronometrato dentro lo spettacolo forzato e perciò asservito al racconto muscolare ed estetizzante.