Terza puntata

In soccorso dei vincitori

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Il titolo della seconda puntata della nostra rubrica era Cinema lingua morta, con omaggio esplicito al Giovanni Pascoli di Un poeta di lingua morta o all’Arturo Martini di Scultura lingua morta, cui va tutta la congiunta riconoscenza per aver suggerito una chiave di accesso al problema del giudicare e giudicarsi oggi.

Lamentarsi dei film, morale della favola dove se serve il lamento è una forma di auspicio, è da critici; quindi nell’accezione in voga da “sfigati” (triste epiteto, ma tant’è) o da maggioranza chiassosa (peggiore, a parere di chi scrive) dove “i critici”, e non “critici”, sono ormai tutti e l’opinione di ciascuno vale aritmeticamente nel computo o nell’algoritmo di un’idea camuffata di democrazia e libertà di espressione. Lamentarsi non serve, perché i film vanno capiti tutti come sintomo del rispetto leale verso gli altri, ed è bene insistere su questo concetto già esposto nel primo appuntamento con I calcinacci. Vanno compresi, sì, con propensione nonviolenta, per quello che sono legittimamente i film, come le opere d’arte, letterarie, musicali e così via, e non per quello che si vorrebbe fossero. Altrimenti tanto vale scriverli e farli questi film piuttosto che recensirli negativamente. Hanno ragione loro, quelli che il cinema lo fanno, a considerare chi ne scrive una sorta di soggetto frustrato, salvo però dare buoni esempi in numero consistente, tale da dimostrare che quella cinematografica non è una “lingua morta” o sul punto di soccombere. Per togliersi dalla mischia, è meglio analizzarli i film che giudicarli in quattro e quattr’otto, stretti dalle lunghezze brevi che il più delle volte fanno comodo e veicolano l’assenza di pensiero. Scriverne ma solo quando si è sintonizzati, o lasciar stare, poiché ci sarà sempre chi lo attacca di contro, cui spetta voce in capitolo nella quotidiana conversazione, o di contro lo difende.

Il guaio è semmai la regola degli incassi o del consenso che impone una gara a soccorrere i film che vanno per la maggiore, possibilmente indifendibili, i candidati e le candidature nelle categorie principali dei premi, le cinquine (come la tombola), i criteri che confondono le puntate delle serie con i film, i produttori con gli autori nel computo degli slot loro assegnati, i David con gli Oscar o con i Devid, le “short list” composte dal criterio del “meglio per me” o “peggio per te”, il box office e i film che siccome incassano meritano o avrebbero meritato i finanziamenti pubblici, i titoli di cui conviene parlare per fare conversazione o essere popolari sulla rete, qualsiasi cosa consenta di stare in una specie di comunità virtuale puntellata di parole al vento e frasi fatte, brevi e supportate da un vocabolario minimo. L’arte diffusa e peraltro antica di correre in soccorso dei vincitori, proteggerli, far quadrato, invocare che piova sul bagnato, caricare di responsabilità i campioni di incassi, premiarli di necessità, risarcirli degli Oscar mancati, mettere a tacere i dissenzienti, sfoggiare il dissenso per rafforzare più o meno involontariamente il consenso, purché se ne parli, rende vano ogni sforzo. Prendersi cura di chi detta legge nella società dello spettacolo, invece di curarsi da questo morbo invasivo, crea modelli e distrugge linguaggi, pare sia diventato uno sport nazionale: quasi un accanimento terapeutico per dar manforte all’impresentabile che ha dichiarato da tempo guerra al buon senso, per poter stare gaudenti sulla stessa barca, che talvolta dà proprio l’impressione di star sprofondando a colpi polemici di “a me piace”, specie se questo riesce a dar dispiacere. Donde la ragione intrinseca, critica e autocritica, ironica e autoironica, lesionista e autolesionista della rivincita silenziosa e di sbieco degli occhi puntati su calcinacci e controsoffitti.

Resta a questo punto da stabilire che fine abbiano fatto la promessa e il debito contratti per ogni puntata de I controsoffitti di prendere di mira uno o più film in particolare, in modalità sibillina, senza ammettere neanche sotto tortura quale? Può essere qui che ne siamo dimenticati, come può essere di no.