Win or Lose di Carrie Hobson e Michael Yates

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Sin dall’inizio del suo percorso cinematografico (correva l’anno 1995 quando Toy Story – Il mondo dei giocattoli fece capolino nelle sale di tutto il mondo), Pixar Animation ha sempre portato in scena sé stessa. Senza addentrarci troppo nello specifico nelle varie fasi della filmografia in questione, basti ricordare come il cambio della guardia in cabina di regia tra John Lasseter e Pete Docter sia stato decisivo non solo da un punto di vista produttivo, ma anche e soprattutto sotto quello drammaturgico: il primo, a nome della sua stessa azienda e rispecchiandone i valori innovativi, si fece portavoce di personaggi emarginati, introversi, caratterizzati da una costante tensione verso il futuro (l’inventore Flik in A Bug’s Life - Megaminimondo (1998), l’ossessione di superare l’infinito nutrita da Buzz Lightyear nel già citato Toy Story, la passione per la cucina del topolino Rémy in Ratatouille (2007), etc.) che li avrebbe portati inevitabilmente a essere lasciati ai margini di un gruppo più consolidato, unito e ancorato alle tradizioni; il secondo più dedito all’introspezione psicologica, già evidente nel suo esordio Monsters & Co. (2001) e poi indagata ancor più in profondità nei seguenti Inside Out (2015) o Soul (2020) e tutti gli altri titoli da lui supervisionati e non diretti in prima persona.

Win or Lose (2025), prima serie originale di casa Pixar, creata da Carrie Hobson e Michael Yates e distribuita in esclusiva su Disney+, è l’ennesima conferma di questo concetto. Strutturato in otto episodi, ognuno dei quali incentrato su un protagonista differente, lo show racconta le gesta sportive di una squadra di softball alle prese con una partita molto importante per le sorti del campionato. Il gruppo resta al centro della scena, protagonista della tanto cara storyline orizzontale della serie. I singoli invece caratterizzano verticalmente ogni episodio, costruendo un mosaico che troverà compimento, ovviamente, nelle battute finali. Niente di nuovo sotto il sole, per carità. Eppure questo schema è quanto mai calzante per far sì che Pixar possa tornare a riflettere su di sé. Gli anni d’oro caratterizzati da una creatività senza precedenti (capace di dialogare con entusiasmo e successo tanto con la critica quanto con il pubblico più mainstream) sono lontani. Recentemente la casa di Emeryville ha faticato a portare in scena il suo smalto, la sua qualità. Le ragioni sono molteplici e probabilmente riconducibili a problematiche al di sopra delle loro competenze (la linea editoriale di Disney, da un punto di vista aziendale, è stata piuttosto turbolenta dalla pandemia in avanti). Tuttavia è innegabile come negli ultimi anni Pixar abbia iniziato a lavorare più sui singoli che sul gruppo.

La guida di Docter si avverte, ma sembra più una traccia da seguire invece che una linea da rispettare. Titoli come Luca (2021), Lightyear – La vera storia di Buzz (2022), Red (2022) o Elemental (2023) sono sconnessi l’un l’altro, frutto della visione cinematografica dei rispettivi registi che  (giustamente) mettono al centro del progetto la propria indole, il proprio sguardo, più che quello di un collettivo. Se il contemporaneo galoppa vorticosamente verso un’individualità più spiccata (con tutti i pro e i contro del caso), l’industria cinematografica deve necessariamente fare i conti con questa tendenza andando a limare e disgregare i gruppi che fino a qualche tempo fa potevamo definire come “chiusi”. Pensiamo al rapporto tra le piattaforme e i Festival, alla presenza di sempre più nomi internazionali nella competizione statunitense degli Oscar, al successo di pubblico di alcune opere indipendenti o arthouse storicamente più apprezzate dalla così detta nicchia.

Provando quindi a mettersi a nudo, Pixar torna in campo con una squadra di dark horses, panchinari meno roboanti dei nomi di un tempo ma capaci di toccare le corde giuste, abitare i propri limiti, utilizzare la segmentata narrazione televisiva per dar vita a frammenti di un percorso sportivo appassionante e introspettivo al tempo stesso. Le emozioni sono ancora al centro del racconto (Docter docet) ma è quando vengono portate in scena con fare meno iconografico e più intimo che lo show funziona nella sua maniera più incisiva. Poco importa se la vittoria non sia garantita, nessuno si preoccupa di un'eventuale sconfitta. Questa Pixar è audace e sfrontata come quella delle origini, intenta ora ad affrancarsi da sé stessa, dai suoi ingombri, dalla sua tradizione. Bene così, ora non resta che attendere cosa sarà in grado di concederci il prossimo inning.