Cosa resterà dell’edizione 2025 degli Oscar? La fetta più cinica del pubblico è pronta a scommettere su un sonoro “bel niente”. Probabilmente a ragione. Quella più attenta e curiosa, invece, non può che restare affascinata, incuriosita e assettata di sviluppi per capire quanto questo primo quarto di secolo sarà incisivo o meno sulle strategie creative e produttive delle stagioni a venire. Già, perché a guardarla bene, ci sono tutte le basi per certificare quella del 2025 come un’edizione più unica che rara, un’edizione spartiacque. Gli elementi sono molteplici, ma qui vogliamo parlare di animazione e ci limiteremo quindi alla rivoluzione copernicana che si è concretizzata nella cinquina di settore.
Il dato ormai è già storico sotto diversi punti di vista. La vittoria di Flow - Un mondo da salvare (da qui in avanti solo Flow) rappresenta un traguardo senza precedenti per la Lettonia (Paese che dà i natali alla pellicola), segnando la prima vittoria agli Oscar per quello Stato. Proprio nei confini nazionali, il film ha ottenuto un successo incontrollato al botteghino divenendo il lungometraggio più visto di tutti i tempi in sala. Ma l’ingrediente che rende questo racconto ancor più saporito è la sproporzione produttiva che ha visto scontrarsi tra loro il piccolissimo Davide (un’opera indipendente, priva di dialoghi e originaria di una regione non particolarmente riconosciuta o ricercata dal pubblico generalista) e alcuni colossi che, a confronto, il Golia di biblica memoria non può far altro che chinare il capo (Pixar con Inside Out 2; DreamWorks con Il robot selvaggio; Aardman con Wallace e Gromit – Le piume della vendetta).
Verrebbe da chiedersi: se non ora, quando? In effetti, alla luce di quanto accaduto nella controparte live action, dove tra Anora e The Brutalist il cinema “dal basso” ha fatto la parte del leone contro lo strapotere delle major, il 2025 potrebbe sembrare proprio l’anno più fertile per il successo di progetti simili. Eppure non è sufficiente arroccarsi dietro una simile visione per giustificare l’importanza di questo premio. Se infatti il cinema d’animazione gode da sempre di uno sguardo più libero, creativo, sperimentale e fantasioso (formalmente e narrativamente parlando), non è al tempo stesso detto che le medesime caratteristiche riguardino il suo mercato, la sua industria. E dal momento in cui i premi Oscar sono i premi per eccellenza dettati proprio dall’industria, è presto detto che la riconoscenza e la meritocrazia si muovano con il freno a mano tirato rispetto la linfa pulsante dei team creativi alla guida di queste produzioni.
Flow segna un precedente, vero. Eppure se non ci fosse stato l’apriporta dell’edizione scorsa, ovvero Il mio amico robot (un film in qualche modo gemello a quello diretto da Gints Zilbalodis poiché a sua volta di produzione europea, privo di dialoghi e lontano dai fasti di qualsiasi studio di produzione degno di questo nome), oggi probabilmente non saremmo qui a celebrarne il successo. Un po’ come Parasite, quando sfruttò il traino di Roma. Tutti i cambi di passo non nascono dal nulla. L’industria è troppo pachidermica per un’inversione repentina, ma al tempo stesso è costantemente attiva nel suo cambiare forma.
Flow significa scorrere. Non c’è titolo più indovinato per un film che celebra l’abilità dell’equilibrio, la necessità di saper adeguare le proprie vele all’imprevedibilità del vento, il coraggio di continuare a insistere, ostacolo dopo ostacolo, confidando in un traguardo che solamente la tenacia e la perseveranza permetteranno di agguantare. Tutto scorre, tutto cambia. Non ci sono più i film di una volta. Non ci sono più gli Oscar di una volta. Non c’è più l’animazione di una volta. Quella contemporanea è povera, sconosciuta, muta e, in una parola sola, immaginifica. Voi chiamatelo pure Davide, se vi va. Noi, però, ce lo teniamo stretto provando a non farlo scappare più via. Anche se sarà impossibile fermarlo, è la sua stessa natura che lo prevede. Scorrerà, Flow. Ma sarà giusto così.