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Presentato fuori Concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, Scarlet è il titolo perfetto per riflettere su una certa tendenza del cinema d’animazione a noi più contemporaneo. Lasciando quindi momentaneamente da parte un’analisi qualitativa del film (ci ritorneremo con l’uscita in sala), è utile provare a riflettere sull’ultimo lavoro di Mamoru Hosoda (considerato – erroneamente – dai più come “l’erede” di Hayao Miyazaki) proprio perché sintomatico di quanto stia accadendo in termini di immaginario e intrattenimento. Prima però, una premessa: il cinema di Hosoda propone da sempre narrazioni molto complesse e stratificate. Il regista giapponese si (e ci) diverte a disorientare il pubblico raccontando intricati salti spazio-temporali, sovrapponendo trame e personaggi per restituire un unico grande flusso di immagini (non solo di coscienza) in cui abbandonarsi per poi aggrapparsi alle tematiche più universali come fossero un’ancora di salvezza. Scarlet, nel suo racconto a cavallo tra Dante e Amleto, in cui una principessa medievale intraprende una missione metafisica in una sorta di limbo ultraterreno per vendicare la morte del padre, non è da meno. Tuttavia, in questo calderone di stimoli e referenze, più che l’impianto tematico e narrativo è l’immaginario orchestrato dal regista a ricoprire un ruolo di primaria importanza.

Come giustamente sottolinea Enrico Azzano sulle pagine di Quinlan, «ibridando alcune caratteristiche delle produzioni animate nipponiche, statunitensi ed europee […] per dare vita a un melting pot che guarda ai character design del Sol Levante ma anche a quelli disneyani» Scarlet rende palese e manifesta una tendenza che da anni sembra aver preso via via sempre più campo in quest’industria. Dal momento in cui la cultura pop si è fatta più predominante nel mondo dell’intrattenimento, provando a raggruppare sotto un unico abbraccio persone appassionate di animazione, serialità, fumetti, videogiochi e via dicendo, la spinta creativa che originariamente sembrava appartenere proprio al cinema animato, è stata ormai ridimensionata. A trainare l’immaginario, non è più la fantasiosa e immaginifica estetica dell’animazione (pensiamo originariamente alle produzioni Disney, poi all’“invasione” delle serie nipponiche e infine all’arrivo della CGI), non sono più gli anni in cui le storie a fumetti si ispiravano agli storyboard cinematografici o i grandi videogiochi provavano a emulare mondi e universi già ampiamente sviluppati sul grande schermo. Ora l’equazione sembra essersi invertita.

Dal momento in cui, nel secolo odierno, il cinema non è più la forma d’intrattenimento popolare prioritaria, ecco che anche l’impatto creativo ha trovato nuovi propulsori. Scarlet è un film che arriva in ritardo, un’opera che segue, non che anticipa. Hosoda si lascia ispirare (più o meno consapevolmente, dovremmo chiederlo a lui) da ciò che lo circonda. Si sforza per citare la Commedia dantesca o la tragedia di Shakespeariana memoria, ma alla resa dei conti sono i riferimenti degli open world videoludici, della role tipica di un gioco di ruolo a primeggiare sullo schermo. Probabilmente non è nemmeno un caso che all’interno del team creativo risulti anche Jin Kim, animatore e designer di scuderia Disney che ha lavorato, tra gli altri, su Big Hero 6 (2014) e Raya e l’ultimo drago (2021), due dei titoli più smaccatamente d’impostazione videoludica tra quelli prodotti da Disney nel nuovo millennio. Si tratta di un problema? Assolutamente no, è pura fisiologia dell’industria. Si tratta piuttosto di pigrizia che, almeno per le persone romantiche che hanno a cuore e da sempre sostengono la bellissima potenza di questa tecnica, non può far altro che lasciare un po’ di amaro in bocca.