Luca Zingaretti

La casa degli sguardi

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La casa degli sguardi, l’esordio alla regia cinematografica di Luca Zingaretti, che esce ora nelle sale dopo la presentazione alla Festa del Cinema di Roma dello scorso autunno e quella, più recente, al Bif&st, può sembrare un film convenzionale: la solita storia di riscatto/ redenzione di un ragazzo “perduto”, ad opera di una persona che si prende cura di lui, magari inaspettatamente e magari senza avere ufficialmente i requisiti per farlo (pensiamo a Scialla! di Francesco Bruni e a Il campione di Leonardo D’Agostini, per citarne solo due). In realtà l’opera di Zingaretti è molto più di questo a livello di temi e contenuti, come avremo occasione di vedere, ed è un lavoro parco e misurato, pudico ma di sostanza, che senza tanti fronzoli o effetti, e senza i toni magniloquenti di altro cinema non solo italiano, arriva dritto al cuore e, anche, alla testa. Perché parla di lavoro e della dignità che il lavoro ha, o dovrebbe avere; di poesia e di arte e del valore che queste hanno, come terapia ma anche come rifugio dell’anima; di malattia e di morte, ma anche di vita; e soprattutto d’amore, concentrandosi sul rapporto tra un padre e un figlio rimasti soli, e sui rapporti che si creano, nel nuovo ambiente di lavoro, tra questo figlio di vent’anni, Marco, e i suoi compagni di squadra (fanno le pulizie in un ospedale pediatrico di Roma).

E parla di dipendenza, di dipendenze; dalle droghe e ancora di più dall’alcol; in maniera molto realistica, che significa: provi a rialzarti, e ricadi; e ti rialzi, e ancora ricadi; poi però un pochino stai meglio; e via così fino a che una consapevolezza (della distruttività di certi comportamenti, della  bellezza – persino – della vita e delle persone intorno che magari vogliono il tuo bene, anche se cercano di non darlo a vedere) in qualche modo subentra, per cui forse una svolta ci sarà… anche se in questi casi il “forse” è d’obbligo e la scena finale del film è emblematica in questo senso: apre sicuramente alla speranza ma sappiamo che non possiamo essere sicuri, che le cose per il protagonista cambieranno. Però lui ha fatto esperienza; si è conosciuto meglio; ha conosciuto delle persone che gli sono state vicino, nel bene e nel male, e che non gli hanno mentito né gli hanno addolcito la pillola. Solamente, come il padre, ci sono state. Sono state lì. Hanno avuto fiducia, ci hanno provato. E hanno fatto in modo che ci provasse anche lui, a venire a capo della sua vita. Lasciando che lo facesse da solo (significativa la figura del barista, che non smette di servire il protagonista anche quando è evidente che il suo tasso alcolemico è decisamente alto, perché dev’essere lui a “salvarsi”: nessuno può farlo per qualcun altro). Ci siamo soffermati su quest’aspetto perché difficilmente, specie in ambito italiano, abbiamo visto un film che descrive la dipendenza in modo così vero, con tutte le (ri)cadute del caso; certo, alcuni elementi della storia sono qui edulcorati, in primis quello relativo al bambino che saluta il protagonista dalla finestra dell’ospedale, ma il percorso che lui compie e il rapporto con il padre non lo sono per niente, e questo è già un elemento molto interessante.

Poi abbiamo il lavoro che, si diceva, è visto in chiave nobilitante, il lavoro manuale tra l’altro: è facendo, “sporcandosi le mani”, che si evita di pensare troppo a se stessi e al proprio male di vivere, e si entra veramente nella vita. Lui, Marco, dirà al suo caposquadra che il momento in cui hanno sgomberato una sala parrocchiale, l’incarico (extra) più gravoso che hanno avuto come gruppo, è stato uno dei momenti più belli della sua vita; bello perché è bello come i quattro stanno tra loro, sostenendosi senza mostrarlo troppo, comprendendosi nel pudore della discrezione (soprattutto degli altri per il nuovo arrivato, la cui problematicità è evidente), ognuno con i propri drammi (la morte del figlio del caposquadra) che inizialmente vengono taciuti, per poi essere scoperti a mano a mano. Perché tutti abbiamo dei drammi, e pur nella disperazione o nello sconforto, come scrive Leopardi nell’ultima fase della sua vita e del suo pensiero, stare con gli altri e sentirli come “uguali”, come “fratelli” sul piano esistenziale, è un sollievo ineguagliabile.

Leopardi non è citato a caso: il protagonista è un poeta, infatti fin dall’inizio ha un editore ma nel momento in cui deve partecipare ad un reading va in crisi, anche perché si deve confrontare con colleghi brillanti, ma spocchiosi e saccenti. Qui, nell’ambito del discorso sulla poesia, Zingaretti introduce un tema sociale nel mostrare il contrasto tra chi “si fa da sé” perché ha talento, anche se non riesce a mostrarlo agli altri o comunque non riesce a farlo nelle sedi istituzionali, e chi arriva a un risultato analogo perché è più fortunato, essendo nato e cresciuto in un ambiente colto o comunque borghese. In questo senso l’opera è un film davvero popolare, perché dà spazio e valore a chi è più problematico, a chi ha/ ha avuto una vita difficile, a chi non ha potuto godere di alcuni privilegi. Zingaretti si ritaglia la parte del conducente del tram della linea 19, che ogni tanto il figlio raggiunge quando arriva al capolinea; ed è qui che si consumerà il finale, carico a suo modo di speranza. Nella forza dell’amore e della vita; e in quella dell’arte, che può “salvare” le persone.

Questo racconto di formazione, sobrio e pacato nei toni, come si diceva, perché mira all’essenziale, ha un’ottima sceneggiatura, scritta a sei mani dal regista con Gloria Malatesta e Sandro Petraglia e tratta dal romanzo omonimo (il primo) di Daniele Mencarelli, lo scrittore dal cui Tutto chiede salvezza è stata tratta la serie TV di Francesco Bruni dallo stesso titolo; la fotografia, spesso notturna e sempre raffinata, è di Maurizio Calvesi; la musica ariosa ed ampia è di Michele Braga; e interessanti sono le performance di attori come Federico Tocci, Alessio Moneta, Riccardo Lai, Alessio De Persio nel piccolo ruolo del barista, dello stesso Zingaretti e soprattutto quella, magnetica, di Gianmarco Franchini, che avevamo apprezzato in Adagio di Stefano Sollima. «Il mio film è una casa di tanti sguardi che ho visto, sostenuto, evitato, adorato, temuto, sperato», ha dichiarato il regista; e con questa nota sul titolo ci piace chiudere questo contributo. 


        

La casa degli sguardi
Italia, 2024, 109'
Titolo originale:
id.
Regia:
Luca Zingaretti
Sceneggiatura:
Gloria Malatesta, Daniele Mencarelli, Stefano Rulli, Luca Zingaretti
Fotografia:
Maurizio Calvesi
Montaggio:
Stefano Chierchiè
Musica:
Michele Braga
Cast:
Gianmarco Franchini, Federico Tocci, Chiara Celotto, Riccardo Lai, Alessio Moneta, Marco Felli, Cristian Di Sante, Joshua Edgar, Katia Greco
Produzione:
Bibi Film
Distribuzione:
Lucky Red

Marco ha 20 anni e una grande capacità di sentire, avvertire ed empatizzare con il dolore del mondo, scrive poesie, e cerca nell’alcool e nelle droghe “la dimenticanza”, quello stato di incoscienza impenetrabile anche all’angoscia di vivere. È in fuga dal dolore ma soprattutto da se stesso. Quando dovrà andare a lavorare nella cooperativa di pulizie del Bambin Gesù, a contatto con i bambini malati, troverà lì una seconda famiglia.

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