Norman, Otis, Paul, Eddie e Melvin: cinque neri in Vietnam. Uno di loro è sempre giovane, com'era allora, nel 1975; perché Norman, in quella giungla, c'è morto. Gli altri quattro, invece, sono tornati a casa, hanno messo su famiglia, fatto affari, perso denaro, magari hanno votato per Trump. Non hanno mai dimenticato quella guerra e il loro capo, la loro guida ideale, Tornado Norman. e si ritrovano oggi, nella hall di un hotel di Ho Chi Minh City (ex Saigon), per rituffarsi nella giungla e ritrovare e riportare in patria i resti del loro compagno. Ma cercano anche qualcos'altro: un baule pieno di lingotti che all'epoca avevano recuperato da un aereo abbattuto e avevano seppellito. Milioni e milioni in oro destinati dagli Usa agli alleati vietnamiti. La paga del soldato, che nelle intenzioni dei cinque doveva trasformarsi (allora e, in parte, ora) in fondi per la causa afroamericana. Negli anni '70, i neri erano l'11% della popolazione degli States, ma black era il 32% dei soldati che combattevano in Vietnam. E: Black Lives Matter, allora come ora. Otis, Paul, Eddie e Melvin sono invecchiati, ingrigiti, un po' meno solidi sulle gambe e nella psiche; e vecchi restano nei flashback che li riportano indietro di cinquant'anni.
E questa è una delle idee migliori di Da 5 Bloods-Come fratelli, il nuovo film di Spike Lee che avrebbe dovuto essere presentato a Cannes e invece è uscito su Netflix: 154 minuti che rimbalzano dal wide screen di oggi al 4:3 del passato, da Marvin Gaye ad Aretha Franklin, dal buddy-heist movie al film di guerra, da un elicottero che si staglia contro un enorme sole rosso alla Cavalcata delle Valchirie che risuona mentre i quattro partono in battello verso la giungla (remember Apocalypse?), dai sorrisi di una reunion un po' malinconica al tormento delle ferite ancora aperte nella mente e nei sogni dei reduci, dall'accenno a vecchie e nuove love story al caos destrutturante in cui ancora si fronteggiano gialli, neri e bianchi. C'è un sacco di roba in Da 5 Bloods, come se mezzo secolo di immagini, suoni, eventi, questioni irrisolte (non solo inerenti il problema afroamericano) si fossero spintonate per entrare, creando alla fine un corpo se vogliamo grottescamente slabbrato, eccessivo, ridondante, ma anche, nella sua strabordante generosità, ipnotico e trascinante. Aperto da Muhammad Alì che rifiutava di andare a sparare ai suoi fratelli vietnamiti e chiuso dal discorso del 4 aprile 1967 in cui Martin Luther King (assassinato esattamente un anno dopo) affermava che «l'America non sarebbe mai stata libera o salva da sé stessa finché i discendenti dei suoi schiavi non fossero completamente liberi dalle catene che ancora portavano», il film di Spike Lee accosta con spudorata disinvoltura cliché ovvi (narrativi, come infidi francesi in lino bianco, ipotetiche dark ladies orientali, figli trascurati o mai conosciuti, o stilistici, come le motorette che trascinano con sé il frame, stringendolo o allargandolo), istanze sacrosante e una lucidità politica che sa vedere al di sotto e al di là della questione afroamericana. Altri colori, ma anche altri umori, che possono intorbidare persino i fratelli neri. Sono uomini come gli altri, fallaci; in più, come dice una frase del film, «l'oro ha un effetto strano sulla gente. Anche tra vecchi amici».
«Finché non si trova niente, la nobile fratellanza durerà; ma quando il mucchio d'oro comincia a crescere... è allora che cominciano i guai», diceva un vecchio cercatore rinnegato in un grande film del 1948: Il tesoro della Sierra Madre di John Huston, modello per niente celato di Da 5 Bloods, soprattutto nella seconda parte, quella della ricerca del tesoro sepolto. Ma in realtà tutto il film di Spike Lee richiama l'energia, il cameratismo e l'adesione istintiva al genere, all'avventura virile e in parte senile, del vecchio, insuperabile modello. Fin dalla prima parte, che è la più bella, la più compatta, quella in cui i quattro caratteri si precisano e si fondono meglio, saltando imperturbabili dalla commedia odierna alla tragedia passata. La seconda parte, quella dell'avventura, soffre di più dell'inevitabile precipitare dei cliché verso la loro "telefonata" conclusione e dell'urgenza dell'autore di tirare le fila politiche e morali della storia. Ma la grande prova dei quattro protagonisti (soprattutto Delroy Lindo, che è l'Humphrey Bogart della situazione, e Clarke Peters, che è il più pacato, un po' Walter Huston, senza la risata) e la voglia costante del regista di mettersi in gioco, di rischiare anche sul piano stilistico, di sporcarsi le mani con l'immaginario collettivo popolare, fanno perdonare lentezze e scivoloni nel cattivo gusto. Bisogna sapersi godere Da 5 Bloods per quello che è: un film pieno di contraddizioni, ma anche di energia e di vita.
Decenni dopo la fine della guerra quattro veterani afroamericani tornano in Vietnam per trovare i resti del loro caposquadra... e un tesoro sepolto.