Uno sconfitto, un traditore, un gigante. «Un gigante circondato da topolini che rosicchiano il piedistallo su cui si è issato». Questo è il Craxi di Gianni Amelio, nel film mai nominato e definito semplicemente «il Presidente»: un monarca decaduto, un esule della democrazia, il distruttore di una tradizione.
Nella sua villa di Hammamet (dove il film è stato effettivamente girato), privilegiato ma non ricchissimo, libero di muoversi ma prigioniero di sé stesso, pesante, malato e zoppicante, Craxi combatte contro l’idea che egli ha dato di sé stesso, contro l’immagine dell’arrogante che conquistò il Psi con consensi bulgari e poi lo distrusse. Non è il rimosso dell’Italia che ritorna, o il fantasma degli errori collettivi pagati da uno soltanto: è egli stesso il colpevole visitato dai fantasmi del suo operato, un carcerato a cui qualcuno ancora chiude ossequiosamente la porta, un re quasi alla fine che ha abbandonato il paese che ha contribuito a rovinare.
Questo «Presidente» ha sempre l’ultima parola, una capacità di ragionamento sopraffina, un’abilità tutta da Prima Repubblica di usare il linguaggio come difesa contro amici, familiari e avversari. Della Prima Repubblica è l’emblema apocrifo, possiede una magniloquenza di tono e portamento propria di quella stagione che egli incarna a nome di tutti; giunto in prossimità della fine arriva anche a citare le parole di Aldo Moro nella prigione del popolo, ammantandosi di una dimensione tragica.
Apocrifi sono però tutti i personaggi che lo circondano e lo incrociano, o gli episodi chiave della sua vita politica, ricostruiti come un gioco (Sigonella) o trasportati altrove (la celebre contestazione all'Hotel Raphael). Oltre alla figlia dal nome inventato Anita, che Amelio ha creato ispirandosi a figure tragiche come Elettra, Cassandra e Cordelia di Re Lear, ci sono il politico democristiano in visita dall’Italia (forse Forlani, interpretato da Renato Carpentieri); il collaboratore interpretato da Giuseppe Cederna, che da operaio diventa quadro del partito e finisce suicida per la vergogna, simbolo del tradimento storico del socialismo (con l’Internazionale rielaborata da Piovani che puntella tutto il film); e ancora il figlio di quest’ultimo, Fausto, che entra nella villa di Hammamet da ladro, dipinto di nero come in un incubo, e diventa testimone di confessioni mai fatte a nessuno, con il 4:3 della sua videocamera che si sostituisce al 16:9 del film, quasi a prendere le distanze dall’autodifesa di Craxi.
Come sempre Amelio (pensando soprattutto a Il primo uomo e alla classicità di quel film) dà il meglio nella costruzione delle relazioni fra i personaggi attraverso l’uso dei primi piani, dei campo e controcampi e dei raccordi di sguardo. E questa volta insiste ancora di più sul tono monocorde di alcuni suoi interpreti (sempre i più giovani, Livia Rossi nella parte della figlia e Luca Filippi in quella di Fausto, entrambe figure incorrotte e condannate a sopravvivere al potere) per segnare la distanza, lo spaesamento rispetto al mimetismo impressionante di Pierfrancesco Favino, in costante controllo di una prova a rischio di overacting.
Perché questo Craxi, in tutta l’ambiguità dell'operazione, è una figura che per forza di cose eccede la norma ed emerge oltre la fissità dello sguardo di chi lo osserva. È l'immagine eloquente non solo della fine di un uomo, ma della fine della politica italiana. A vent’anni dalla morte, Amelio non lo assolve e non lo condanna: semplicemente, lo lascia in mezzo alla scena come luogo naturale per un uomo del suo calibro. Il risarcimento di Hammamet, dunque, non è per la vita di Craxi, ma per la sua morte, trasformata da evento privato e distante (e pure vigliacco, per la fuga dalle condanne in contumacia) a fatto condiviso.
Peccato che Amelio sembri quasi non fidarsi della straordinaria finezza dei dialoghi scritti con Alberto Taraglio, dell’eco di un mondo lontano resuscitata dalla voce di Favino, degli impliciti elementi onirici nella figura del ragazzo-testimone, con cui il Presidente arriva a vagheggiare una fuga. Tutto questo, nel film, ha anche un versante esplicito e pesantemente simbolico che ne mette a rischio la forza: a cominciare dall’insistita immagine dei vetri rotti dal Presidente bambino armato di fionda (lui è il malevolo, il malvivente, il malvagio, «il bandito di alto livello» come lo definiva Berlinguer) per finire con l’ingombrante, rischiosa, malriuscita scena dell’incubo post-mortem, dove Amelio osa avvicinarsi a Fellini e Bellocchio e per questo snatura la sua riflessione sulla storia italiana, che non è né immaginaria né intuitiva, ma è una tragedia di parole, di sguardi, di atti mancati, di colpe da scontare e peccati nei quali ritrovarsi.
Sono passati vent’anni dalla morte di uno dei leader più discussi del Novecento italiano, e il suo nome, che una volta riempiva le cronache, è chiuso oggi in un silenzio assordante. Fa paura, scava dentro memorie oscure, viene rimosso senza appello. Basato su testimonianze reali, il film non vuole essere una cronaca fedele né un pamphlet militante. L’immaginazione può tradire i fatti “realmente accaduti” ma non la verità. La narrazione ha l’andamento di un thriller, si sviluppa su tre caratteri principali: il re caduto, la figlia che lotta per lui, e un terzo personaggio, un ragazzo misterioso, che si introduce nel loro mondo e cerca di scardinarlo dall’interno.