Il pensiero corre a Ermanno Olmi, a Il posto, a proposito di lavoro in generale, e a Lunga vita alla signora, a proposito del particolare percorso formativo, senza soluzioni di continuità. Intendiamoci, se L’apprendistato di Davide Maldi richiama alla memoria questi film e questo autore non è perché vi somiglia o perché li cita.
Il rapporto con Olmi è di ordine morale ed estetico. Olmi, con lungimiranza con Il posto coglieva per tempo un aspetto centrale della convenzionale dimensione lavorativa, lontano da facili velleità ideologiche che avrebbero spostato l’attenzione dello spettatore dalla concreta “circostanza”, per dirla con il titolo di un altro suo film, al frustrante desiderio di un cambiamento altamente improbabile dello stato delle cose.
Cosicché, all’inizio degli anni ’60, nel pieno del “miracolo” economico, poneva dunque il problema, restando con il personaggio senza tradirlo per sposarne una causa ideale e assai poco praticabile, rendendosi ben conto, senza fare il gioco di nessuno e senza perciò strumentalizzare l’assunto, che il meccanismo di accettazione dell’esistente sul piano lavorativo, ai ranghi bassi, si sarebbe protratto ben oltre ogni rivendicazione politica o sindacale, almeno fino alla seconda metà degli anni ’80, quando ormai era giunto il tempo di trasformarlo l’essenza in perfetta parabola sul sinistro modello consolidato di società crudelmente egoista, apparecchiata come si apparecchia una tavola per commensali di rango, divaricata in senso verticale.
Qui, oggi, non domani né altrove, Maldi di Olmi recupera la lezione, che è una lezione non legata ad alcun meccanismo di dipendenza tra maestro e allievo, modello e copia, bensì a una consapevolezza attiva e una responsabilità dello sguardo allargata, condivisa, transitiva. Maldi mostra così un caso particolare, sotto gli occhi di chiunque abbia un minimo di cognizione di come va a impostarsi quotidianamente e senza infingimenti in ambito scolastico, non necessariamente in un istituto alberghiero, un tipico sistema di potere.
Imparare, oggi più che mai, significa una cosa sola: tramontata la credibilità di una militanza politica dentro il mondo del lavoro o come in questo caso del ventilato avviamento al lavoro, significa obbedire e sottostare, accettare la gerarchia e servire. Sia in scuole cosiddette di indirizzo umanistico o scientifico sia in una di tipo professionale il principio resta invariato, lo stesso che governa un modello di società consolidato e inveterato nelle sue dinamiche di base, in cui l’unico sintomo di insofferenza è l’irrequietezza, sedata da rimproveri, moniti o convocazioni, dove l’assenza di controcampo lascia intendere il grado di allarme che neanche un’espressione innocente basta a nascondere.
Con il vantaggio, ed ecco l’intuizione a monte e a valle di questo film, in un istituto scolastico non qualsiasi, ma tra i più orientati e caratterizzati, della severa trasparenza delle regole, dei dichiarati rapporti di forza, della completa visibilità delle mansioni, delle incombenze dentro un pieno e pressante regime di sorveglianza.
Altrove, in contesti che precedono o presuppongono diversamente orizzonti lavorativi magari più vaghi o poco tangibili, è possibile che non si avverta quel clima grave che invece in L’apprendistato, stante un preciso esemplare scolastico scelto legato a pratiche “alimentari” di servizio, emerge prepotente in tutti i sensi. Ma la sostanza del discorso non cambia. La consapevolezza dell’autore sta tutta nel dire, senza accusare o trepidare, che il dramma è insito nelle cose comuni, fa parte della scuola e fa scuola a sé. In questa accezione L’apprendistato è riconducibile all’esempio di Olmi, stabilendo con Olmi piuttosto una consonanza e una comunione di obiettivi, che presuppone un patto di lealtà, molto d’autore, tanto verso lo spettatore quanto verso il personaggio (anzi, i personaggi, tutti, in alto e in basso di questo microcosmo modulare, in cui ciascuna risorsa umana risulta perfettamente in parte, posizionata nella casella assegnata dell’organigramma).
Il confine presunto tra documentario e finzione nel film è pressoché inesistente poiché non ha ragione di esistere. Non c’è una materia e uno stile che possano diversamente ispirare un regista che sappia molto bene sia di cosa sta effettivamente parlando (tanto da saperlo rappresentare senza cercare un crescendo drammatico che è già nell’ordine degli eventi), sia a cosa sta di conseguenza alludendo. Si comincia dunque nella convinzione di seguire le tappe del singolo apprendista, abbastanza distinto all’interno del gruppo. Ma si procede comprendendo poco alla volta per dovizia di particolari come quello che sin dal titolo L’apprendistato designa sia invece una condizione (dis)umana allargata.
Si potrebbero a questo punto chiamare in causa anche Frederick Wiseman sul fronte documentaristico e Stanley Kubrick su quello della finzione. Ma a che pro? L’apprendistato presuppone e trascende allo stesso tempo qualsiasi buona pratica pregressa. Per come ne concepisce Maldi l’utilizzo e la funzione, la macchina da presa, analizzando una alla volta le situazioni scandite dal susseguirsi di composizioni segnate dalla simmetria e dal rigore geometrico del perimetro visivo, non ha dunque bisogno di mimetizzarsi o di inseguire canoni realistici, né di filmare la recita di nessuno.
Solo in extremis si concede un allusivo, furtivo, provocatorio sguardo in macchina del giovane protagonista il quale, anziché reclamare sostegno o comprensione, tira così dentro tutti. Ciascuno nel ruolo e nella “scuola” in cui si svolge il proprio “apprendistato” alla vita.
D’ora in avanti i capelli devono essere corti e ben pettinati, le unghie devono rimanere pulite e le dita non devono diventare gialle per la nicotina. Il lavoro impegnerà molto sia mentalmente che fisicamente, il consiglio che viene dato è quello di venire il meno possibile influenzati dall’atmosfera festaiola che regna attorno. Queste sono alcune delle regole che Luca, un quattordicenne timido e dall’animo selvaggio, deve imparare a rispettare per sopravvivere all’interno del collegio alberghiero. La famiglia lo ha spinto a iscriversi perché lui possa imparare il più rapidamente possibile il mestiere e il suo carattere ne risulti forgiato. Luca proviene da un villaggio di montagna tra le Alpi, è cresciuto badando al bestiame di famiglia e andando in giro nei boschi.