Il diario è definito, come forma letteraria, da due componenti fondamentali: il punto di vista del soggetto che scrive e il tempo che, scandendo il ritmo del racconto, ne costruisce l’essenza. La struttura cronologica del diario serve a calare la materia della storia privata dentro all’oggettività della Storia pubblica per farla diventare, proprio attraverso questo connubio, intimità condivisa. Quello che fa Marguerite Duras con La douleur è però qualcosa di ben più complesso e scivoloso; il presupposto sembra essere quello di scardinare il diario nella sua stessa definizione rendendolo, con un ossimoro, “intemporale”.
Ritrovato, scritto a posteriori, rimaneggiato che sia (è la stessa scrittrice a confondere le idee del lettore a questo proposito e a rendere volutamente ambigua la natura dell’opera), il diario della giovane Marguerite che attende il ritorno del marito Robert deportato a Dachau, prende forma proprio attraverso la parola che, quasi senza coscienza di sé, sovrascrive la storia alla Storia. Nel suo ridefinirsi come narrazione diaristica, La douleur diventa molto più di un diario, si stacca dal tempo per diventare pura dimensione intima, psicologica, emotiva, per diventare dolore puro e consegnarsi alla letteratura quasi suo malgrado («la littérature lui fait honte», dice addirittura Duras nel preambolo letteralmente citato in apertura dal film).
Scrivere, riscrivere e sovrascrivere ridefinendo il tempo del racconto per dare una forma allo spazio intimo e psicologico è proprio la sfida accolta da Emmanuel Finkiel, che riesce in modo stupefacente a misurarsi con il testo di Duras. Allo stesso tempo fedelissimo e distaccato dal testo, Finkiel prende le parole di Duras quasi alla lettera e le sovrappone alle immagini incurante di sincronizzarle, al contrario lasciandole fluire con il proprio tempo secco, soffiate – sovrascritte appunto – da una sublime voce off che non si cura delle immagini ma guarda e passa.
Intanto le immagini scrivono però il loro racconto altrettanto nitido e preciso, fatto di movimenti di macchina lenti a cogliere le minuzie degli ambienti, le tazzine del the, le unghie bordate di nero, le tende spostate dal vento, le strade di Parigi, i volti della gente, le infinite sigarette lentamente trasformate in cenere tra le dita. Un fluire creato dal movimento continuo dello sguardo guidato dal campo che si allunga cercando di conquistare una profondità impossibile, continuamente negata dal fuoco che si perde, che cerca l’oggetto ma non lo può trovare, e finisce per tornare sul soggetto o per cercare sollievo su un oggetto, diverso, superfluo eppure inamovibile, necessario. E poi, ancora, alla parola e all’immagine si sovrascrive la musica, un altro livello di narrazione autonomo ma compenetrato che muove, dilata, sospende, fa crescere la tensione descrivendo un’ulteriore dimensione dell’emotività. Tutto è movimento.
Si muove continuamente la stessa Marguerite. Nevrile e gracile, algida e dolce, sinuosa e ferma, il corpo minuto di una Mélanie Thierry perfetta si pone senza un solo sussulto davanti alle rotondità viscida di Benoît Magimel come alla rigidità amorevole di Benjamin Biolay; sempre presente a sé stessa, sempre presente al suo dolore, Marguerite ammicca, sorride, soffre, ascolta, parla, scrive ma soprattutto attende. E l’attesa è tutto. Diventando assoluta, l’attesa arriva a sovrastare qualunque cosa, a bastarsi da sola, tanto da rendersi indipendente dal suo stesso oggetto e da staccarsi perfino dal tempo, che resta sospeso oltre ai fatti, alle notizie, agli aggiornamenti. L’attesa diventa materia stessa dell’esistenza e la vita di Marguerite prende corpo e sostanza attraverso questa tanto che, quando finisce, non sa più che fare se non accettare che «il dolore è una delle cose più importanti della vita».
Giugno 1944, durante l'occupazione tedesca di Parigi. Marguerite, moglie dello scrittore Robert Antelme, grande figura della Resistenza francese, attende di avere notizie del marito, arrestato dalla Gestapo e forse deportato in un campo di concentramento. Sconvolta dall'angoscia, Marguerite accetta di avere rapporti con un agente francese della Gestapo, Rabier, pur di di avere notizie del marito. E quando la guerra finalmente finisce l'assenza di Robert mina poco alla volta la sanità mentale della donna.