La mattina del 14 dicembre 1976, a Roma, il vicequestore di polizia Alfonso Noce, responsabile dei servizi di sicurezza per il Lazio, subì un attentato da parte dai NAP, Nuclei armati proletari, durante il quale vennero uccisi l’agente di polizia Prisco Palumbo e il terrorista Martino Zicchitella. Gravemente ferito, Noce sopravvisse e dopo un’operazione e un lungo ricovero tornò a casa dalla sua famiglia.
Claudio Noce è il figlio di Alfonso, all’epoca aveva poco più di un anno, ma in Padrenostro rielabora quei fatti immaginando un nome diverso, Le Rose, e un figlio più grande di qualche anno, Valerio, allievo di una scuola elementare privata, che al contrario della sorellina assiste alla sparatoria e accorre sul luogo del delitto. Coi suoi occhi di bambino, non visto dagli adulti, Valerio vede morire il terrorista e nei mesi successivi, senza che nulla gli venga spiegato, soffre per la prolungata assenza del padre. Il trauma della privazione dà vita a una richiesta d’affetto, d’attenzione e d’amore che sfoga nell’amicizia per Christian, un ragazzino di qualche anno più grande che salta fuori dal nulla e potrebbe essere il suo amico immaginario.
Corpi, proiezioni, fantasmi, cadaveri: la memoria di Noce non è storica ma individuale e s’incarna in una serie di rappresentazioni evidenti, materiali, che cercano una risposta alla paura del vuoto e della morte. Gli anni di piombo restano sullo sfondo, in un ritaglio di giornale, un frammento di telegiornale, una rivendicazione ascoltata al telefono; il punto di vista è quello del bambino, ignaro di tutto se non del proprio mondo, tra la Roma dei quartieri alti e la Riace delle origini, dove con la famiglia si rifugia d’estate e dove viene incredibilmente raggiunto dallo stesso Christian. Gli occhi dolci di Valerio – interpretato dal bravo Mattia Garaci – osservano avidi la presenza mai certa del genitore, la sua pancia impara a respirare all’unisono con la pancia del papà, e la sua assenza è risolta dal rapporto con Christian, amico, fratello, sostituto, forse rivale e nemico, l’altro da sé di cui immaginare un dolore altrettanto forte, contrario ma uguale.
I meccanismi di sostituzione messi in atto dal protagonista di Padrenostro trovano un rifugio (o forse uno scoglio insormontabile) nella figura paterna, a cui Pierfrancesco Favino regala il suo corpo gigantesco, ingombrante, statuario e quasi mistificato per come, attraverso Valerio (e a un certo punto anche Christian), diventa l’emblema di un amore che può tutto e tutto dà. La madre resta tagliata fuori da questo rapporto esclusivo, e come se non bastassero le immagini (che mettono addirittura in relazione la figura del padre con il Cristo del Mantegna) ci pensano i dialoghi troppo didascalici ad esplicitare una frustrazione che accomuna adulti e bambini, madri e figli, le cui attenzioni sono tutte per la figura maschile elevata a dimensione eroica.
C’è un momento in Padrenostro in cui gli occhi del figlio e il corpo del papà si avvicinano come mai prima, ed è quando Valerio, addormentatosi nel lungo viaggio verso la Calabria, viene prelevato dalla macchina e amorevolmente portato a letto in braccio. Noce allestisce una sorta di Pietà michelangiolesca, ma a mancare alla sua rappresentazione è la totalità del punto di vista, la quieta grandiosità di una scena d’amore così semplice da essere assoluta. Al contrario, sceglie di riprendere da vicino i suoi interpreti e di alternare in campo e controcampo il volto beato del bambino e, dal basso verso l’alto, quello monumentale del papà. L’effetto è forse inconsapevolmente ridondante e celebrativo, con il cinema chiamato a intromettersi con modalità proprie ma fuori misura, in questo e altri momenti del film troppo ingombrante, invadente, tra ralenti, primissimi piani, riprese in plongée, accompagnamenti musicali affascinanti ma di difficile gestione (Buonanotte fiorellino sulle immagini che ricostruiscono l’attentato, Impressioni di settembre nel momento chiave del rapporto tra Valerio e Christian).
Fatalmente, troppo spesso in Padrenostro le immagini sono di troppo, quasi il regista non avesse consapevolezza della misura con cui una vicenda personale può diventare universale. Nel film ci sono i segni di un amore privato e di un dolore vero, ma il racconto si tinge di troppe forme, troppe soluzioni, per essere anch’esso assoluto.
Roma, 1976. Valerio ha dieci anni e una fervida immaginazione. La sua vita di bambino viene sconvolta quando, insieme alla madre Gina, assiste all’attentato ai danni di suo padre Alfonso da parte di un commando di terroristi. Da quel momento, la paura e il senso di vulnerabilità segnano drammaticamente i sentimenti di tutta la famiglia. Ma è proprio in quei giorni difficili che Valerio conosce Christian, un ragazzino poco più grande di lui. Solitario, ribelle e sfrontato, sembra arrivato dal nulla. Quell’incontro, in un’estate carica di scoperte, cambierà per sempre le loro vite.