«Ho pure provato a spacciare ma non è cosa mia», dice Francesco. Non è uno dei due protagonisti di Selfie, ma uno dei tanti volti di ragazzi che entrano nelle inquadrature del telefono che Agostino Ferrente ha affidato a Pietro e Alessandro per raccontare la vita del quartiere Traiano di Napoli.
Ci provano, questi ragazzi, a cercare di vivere in modo diverso, a non farsi schiacciare dalle dinamiche malavitose cui sembrano essere destinati per diritto di nascita. Provano a sfuggire a questo stesso destino, che sembra non poter dar loro scampo costringendoli a una vita in trincea, quello che non ha risparmiato l’innocente Davide Bifolco ucciso a sedici anni per errore da un carabiniere. “O contro le guardie o contro i concorrenti” dice più avanti l’unico a nascondere sia il volto che la voce perché unico vero criminale a entrare in scena. Questo è il destino di chi nasce in quei quartieri. Ma è l’unico possibile?
L’idea di Ferrente è semplice e è chiara: provare a ribaltare il modo di raccontare e indagare la vita in queste zone braccate dalla malavita e dalla marginalità ribaltando il punto di vista come ogni smartphone che chiunque ha in mano consente di fare con un semplice tocco di polpastrello. Girare la modalità di ripresa della camera che si ha costantemente in tasca vuol dire provare a raccontare il mondo in cui si vive mostrandolo in prima persona, non in soggettiva ma mettendosi in scena. Vuol dire cioè provare a mostrarsi dentro il proprio mondo. L’assunto è semplice ma tutt’altro che banale. Ai ragazzi viene infatti affidato il mezzo ma non la responsabilità autoriale che il regista – guidandoli, stimolandoli, incuriosendoli – tiene salda nelle sue mani.
Per transizione diretta attraverso le immagini passa allora tutta l’intimità e l’esperienza che Alessandro e Pietro hanno del proprio reale, lasciando che il ritratto della quotidianità, del vissuto e delle aspettative prenda forma in maniera naturale. A fare da controcampo, oggettivando lo sguardo, si inframmezzano qua e là le immagini di alcune videocamere di sorveglianza come un ulteriore ribaltamento di campo che non cambia il segno del racconto, anzi lo rafforza. Con il procedere del film i due ragazzi cominciano infatti a guardare se stessi e quello che hanno intorno con progressiva attenzione e il loro modo di mettersi in scena, dapprima semplicemente divertito, a tratti bonariamente spavaldo davanti alla camera, comincia a farsi più consapevole fino a interrogarsi sulla possibilità stessa del racconto e della rappresentazione.
Lo dimostra la discussione che riprendono mentre camminano a passo spedito lungo il marciapiede che costeggia i palazzoni del quartiere: che cosa si deve raccontare, le cose belle o le cose brutte? Su cosa si deve indugiare, sui bulli che aspirano a diventare criminali ostentando come maneggiano le loro pistole o su chi cerca semplicemente il suo modo di cavarsela? Cosa c’è di bello nel vivere il quartiere? Che cosa vuole vedere lo spettatore ma soprattutto che cosa vogliono raccontare loro di questo? Alessandro e Agostino capiscono subito che filmare vuol dire scegliere, decidere cosa e come raccontare, e basterebbero anche solo questi pochi minuti che attestano la loro istintiva agnizione a dimostrare la riuscita dell’esperimento di Agostino Ferrente: capace ancora una volta di dare al cinema del reale il suo apporto attento e sincero.
Amicizia, amore, futuro, delinquenza e discriminazione visti attraverso gli occhi e i video-selfie di due ragazzi, Alessandro e Pietro, nati e cresciuti nel Rione Traiano, quartiere di Napoli. Agostino Ferrente affida ai ragazzi la macchina da presa, in questo caso un cellulare, e attraverso la loro quotidianità racconta anche fatti di cronaca, come l’omicidio di Davide Bifolco ucciso da un poliziotto perché scambiato per un latitante. Agostino Ferrente ama Napoli, la conosce e la mostra attraverso gli occhi di due giovani amici fraterni.