Un padre e suo figlio tentano di sopravvivere tra le macerie della loro vita. Le campagne del dimenticato meridione dei braccianti fanno da sfondo al loro vagabondare, finendo inevitabilmente per annerirne volti e anime già consunte dalla sofferenza. Dopo la morte di Angela, moglie e madre, e le conseguenti difficoltà economiche, Giuseppe e il piccolo Anto’ sono costretti a lasciare la propria abitazione riuscendo a trovare riparo in uno dei campi che ospitavano contadini e manovali, nel cuore dell’inferno del caporalato.
Non è certo un disastro apocalittico ad aver causato l’impoverimento dei due protagonisti né vediamo lande desolate o metropoli annebbiate dalla cenere, ma per molti versi Spaccapietre evoca una storia simile a quella di La strada di Cormac McMcarthy. Anche lì ci sono un padre e un figlio che restano in vita all’indomani di una catastrofe e una madre che scompare prematuramente. Lo stesso dramma intimo, oltre che collettivo, e la medesima volontà di sopravvivenza incarnata dalla figura del bambino.
Non per caso, la vicenda è raccontata dal punto di vista di Anto’: dalle prime inquadrature al rovescio, che mostrano il bambino contemplare a testa in giù i movimenti e le azioni della madre, fino alla corsa finale tra i campi, unica attestazione di speranza di tutta la storia.
È sulla fisiognomica del bambino che Gianluca e Massimiliano De Serio insistono, dal momento che, per dirla con McCarthy, il bambino «porta il Fuoco» ed è colui che andrà a motivare il padre esortandolo alla resistenza di fronte alla disumanità di cui sono vittime. L’iperbolicità cui si aspetterebbe di assistere viene messa da parte a favore di un’asciuttezza formale e stilistica – e d’interpretazione: sia Salvatore Esposito sia il piccolo Samuele Carrino mantengono infatti un equilibrio e una misura quasi metafisici – che favorisce un’identificazione ancora più sentita, perché mai forzata.
In Spaccapietre, i gemelli De Serio rappresentano con linguaggio obiettivo e una scrittura di volutamente povera di artifici la realtà sociale dei lavoratori della terra; senza alcun filtro che ne attenui gli aspetti drammatici e più crudi. Nel film dialoghi e suoni sono ridotti all’essenziale e spetta alla gestica dei corpi e degli spazi comunicare – sublimandolo, trasfigurandolo – uno stato d’essere: l’occhio di vetro del padre, trafitto in passato mentre spaccava le pietre; le tracce di sangue animale sulle braccia di Rosa; l’accampamento che viene (programmaticamente) bruciato…
Per rendere tutta la complessità del mondo che rappresentano i due registi si servono di un determinismo sociale spietatissimo, dove condizionamento psichico e cambiamento diventano inesorabili agli occhi di tutti, fuorché del bambino: portatore degli ultimi fuochi di speranza in un mondo arido e ancestrale.
Dopo un grave incidente sul lavoro Giuseppe è disoccupato. Suo figlio Antò sogna di fare l'archeologo e pensa che l'occhio vitreo del padre sia il segno di un superpotere. Sono rimasti soli da quando Angela, madre e moglie adorata, è morta per un malore mentre era al lavoro nei campi. Senza più una casa, costretto a chiedere lavoro e asilo in una tendopoli insieme ad altri braccianti stagionali, Giuseppe ha ancora la forza di stringere a sé Antò, la sera, e raccontargli una storia. Gli ha promesso che un giorno riavrà sua madre, e rispetterà quella promessa, a qualunque prezzo.