Tesnota è lo straordinario e sorprendente film di Kantemir Balagov, ventisei anni da Nal'čik, Caucaso settentrionale, allievo di Sokurov e destinato a far parlare di sé a lungo, dopo la presentazione due anni fa del film al Certain regard di Cannes (che lo scorso maggio ha presentato nella medesima sezione l'opera seconda Dylda -Beanpole). Un film che si stenta a credere sia l’opera prima di un ragazzo così giovane tanto è risolto, calibrato, pieno di cose che funzionano e perfettamente orchestrato sia in termini di scrittura che di esecuzione. E si stenta ancora di più se si considera che Balagov ha firmato anche sceneggiatura e montaggio, oltre alla regia.
Girato nei luoghi in cui il regista è nato e cresciuto – la repubblica autonoma di Kabardino-Balkaria, alle pendici del Caucaso, nella Russia sudoccidentale – una regione incastonata fra il Mar Nero e il Mar Caspio, abitata da gruppi etnici diversi e poco distante dalla Cecenia, Tesnota racconta la storia di Ilana, una ragazza ventiquattrenne, figlia maggiore di una famiglia di ebrei russi che abita nella regione da lungo tempo. Ilana aiuta il padre nell’officina dove lavora, sta con un ragazzo kabardo e passa le sue serate a bere, a ballare o a guardare la tv con gli amici, come tutti i ragazzi della sua età in qualsiasi parte del mondo. Poi all’improvviso suo fratello viene rapito, e per pagare il riscatto i genitori le chiedono di sacrificarsi in un matrimonio di interesse con il figlio di una ricca famiglia del posto. La vita di Ilana cambia da un momento all’altro: deve compiere delle scelte, diventare grande, cercare un compromesso impossibile fra la sua indole ribelle e la ragione cui il precipitare degli eventi la richiama. Tutt’intorno una comunità chiusa, una terra di confine dove germogliano l’intolleranza e l’odio razziale che è anticamera della guerra – siamo sul finire degli anni Novanta: quando la Prima guerra Cecena si è appena conclusa e la seconda sta per cominciare.
Tante, tantissime cose che si intrecciano e che Balagov riesce a calibrare in un racconto cadenzato, costruito da grandi sequenze o da piccoli tocchi di regia dove tutto sta al posto giusto. A cominciare dal formato 4:3 che imprigiona i personaggi e da un digitale buio o spesso in controluce che diventa quasi un limite alla visione. E poi piani sequenza di grande spessore che ricordano il cinema di Mungiu più che quello di Sokurov (basti pensare a come è raccontata la perdita della verginità della ragazza) e i colori di un paesaggio inospitale, a metà fra montagna e deserto che sembra sempre freddo e inabitabile (tutta la scena finale, girata in mezzo ai canyon delle valli caucasiche è a dir poco straordinaria). Non da ultimi gli spazi: con la sensibilità che è dei grandi autori il regista segue la ragazza dentro il villaggio in cui (quasi) tutto il film è ambientato, riuscendo a descriverne tanto l’anonima trascuratezza quanto il senso di imprigionamento.
Gli anni Novanta di Balagov – che sembrano negli arredi, negli abiti e nel décor gli Ottanta dell’ultima Russia Sovietica – sono un territorio arido, desolato dove covano conflitti che trasformano ogni cosa in uno scontro e in cui la dissoluzione, la perdita delle radici e dei valori (qui simboleggiata da una famiglia che si divide) sembra una conseguenza scontata. Quasi la necessità – che è anche quella di un popolo e di una nazione – di sacrificare qualcosa per poter ricominciare. Per credere in nuovo inizio sperando che non sia invece una dolorosa fine.
1998, Nalchik, Caucaso. Una famiglia ebrea viene sconvolta dal rapimento del figlio minore. Evita la polizia e si stringe nella comunità di appartenenza, ma i conflitti latenti esplodono e Ilana, la sorella, si ritrova a lottare contro tutto e tutti.