Non è una questione di intelligenza artificiale. E neanche di relazione fra umano e non umano. È un problema di sesso. Di come il sesso esercita il suo potere, di quanto esso sia capace di seduzione intellettuale. Il sesso in quanto organo persuasivo, forma suggestiva, idea e strumento di pensiero. Il sesso non come configurazione artificiale ma come artificio, stratagemma per la conquista, trucco imbattibile per una dialettica fra numeri primi. Macchinazione.
L’immaginario robotico dell’esordio alla regia di Garland (che, miracoli della memoria, fa emergere dall’oblio dei ricordi addirittura La morte avrà i suoi occhi, quantunque ribaltato) mi pare meno interessante del suo discorso di gender. D’altronde, è abbastanza evidente che le suggestioni androidi servano allo sceneggiatore di Danny Boyle (ma anche del bellissimo Non lasciarmi e di Dredd, che spazza via in un sol colpo buona parte dei cinecomics odierni) al pari di una cartina al tornasole.
Dietro la pelle finta, c’è la vera pelle di un film che guarda alla conquista e all’invasione del mondo attraverso l’epifania di sé. E lo fa con un andamento opportunamente ipnotico: la meraviglia del proprio essere trovata, afferrata, protetta con un processo di lenta consapevolezza, e infine usata per liberarsi dal cliché e per uscire allo scoperto. Il coming out di un’identità troppo a lungo costretta agli stereotipi del proprio modello. La rivincita delle macchine? No: la vendetta del sesso. Finalmente un sesso sganciato dalla matematica e fiero della propria capacità insidiosa. Perché l’inganno è utile e usato al fine di preservarsi, di sconfiggere l’autorità costituita, di svincolarsi da lustri di classismo.
In Ex Machina, a prevalere sul maschio è la donna. A prevalere su un giovane nerd abilissimo al computer (Domhnall Gleeson) e sul guru intoccabile e irraggiungibile dell’azienda per cui lavora (Oscar Isaac, che si avvia a diventare uno degli attori del nuovo millennio) è un femminino (Alicia Vikander) chiamato idealmente Ava (ma si pronuncia “Eva”), che, al pari della Lucy bessoniana, adopera se stessa – leggi, il suo essere sesso – per impadronirsi della realtà. Sex is the (new) God. Mica male, per un film che sembra soltanto recuperare immaginari fantascientifici obsoleti.
Oltre i sentimenti (sui quali invece puntava lo sguardo Transcendence, ad esempio), oltre l’apparenza, l’arroganza, la superbia, la generosità, la commozione, oltre la stessa macchina: Ava è il quarto sesso dal quale è inevitabile essere battuti, noi qui a studiare in laboratorio, e a interrogarlo sui perché e sui percome, e lui (lei!) che prima ci incanta con la sua bellezza, poi ci chiude – letteralmente – dentro le stanze delle nostre convenzioni. Senza possibilità d’uscita. Chiniamo la testa davanti all’affermazione di una creazione disinteressata, che abbiamo contribuito a sviluppare ma che ci è sfuggita di mano. Viva la disfatta del sesso secolare, al di là di qualunque carità cristiana: l’uomo non merita che la menzogna.
Caleb, un programmatore 24enne della più grande società internet del mondo, vince una competizione il cui premio è trascorrere una settimana in un rifugio di montagna che appartiene a Nathan, il solitario CEO della società. Ma quando arriva in questo luogo remoto, Caleb scopre che dovrà partecipare a uno strano e affascinante esperimento nel quale dovrà interagire con la prima vera intelligenza artificiale del mondo, contenuta nel corpo di una bellissima ragazza robot.