David Lynch, raccolta.

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David Lynch è morto ieri, 16 gennaio 2025, a 78 anni. In ordine di arrivo sulla scena (con Eraserhead – La mente che cancella, uscito nel 1977 dopo anni di riprese e lavorazione) è stato forse l’ultimo dei grandi maestri della storia del cinema, visto e amato da tutti, studiosi, critici, cinefili, appassionati. Su Lynch è stato scritto tanto, forse tutto, ma altrettanto si potrebbe ancora scrivere.
Anche su questo sito, ora che Lynch non c’è più e un’epoca del cinema con lui finisce, proveremo a scrivere qualcosa di nuovo. Per ora pubblichiamo una raccolta di alcuni scritti pubblicati dalla rivista nel corso degli anni.

Buona lettura.


Eraserhead – La mente che cancella (1977)

Per un film fatto di libere associazioni e di violenti accostamenti diventa fin facile scomodare il surrealismo, mentre sul lato formale, per il forte contrasto di luci e l’uso non naturalistico del bianco e nero, la citazione d’obbligo è il cinema espressionista. Ma in entrambi i casi si tratta di riferimenti di comodo, di approssimazioni per difetto, che diventano addirittura fuorvianti se si tenta di collocare Eraserhead in una particolare tendenza, riconducendolo sui binari tranquilli della moderna cinefilia, quella del film “alla maniera di…”. Lynch non è un cinefilo – è lui stesso a dichiararlo – e il suo primo lungometraggio non catturerebbe lo spettatore, se non fosse in un certo senso senza riferimenti, un’opera-limite, una sfida alle consuetudini percettive che, per essere pienamente accettata, richiede un diverso modo di fruizione. Se tuttavia un richiamo esterno va trovato, sarà bene cercarlo nella pittura, dalla quale il regista proviene (a stabilire la connessione tra il disegno e l’arte in movimento sono i cortometraggi d’animazione realizzati prima del ’70, Alphabet e The Grandmother; procedimenti tecnici di quel cinema sono rintracciabili anche negli effetti speciali di Eraserhead). La pittura di Francis Bacon, esplicitamente citato da Lynch in un’intervista, pare il riferimento più probabile: la sfigurazione dell’immagine, il suo corrompersi sotto una luce impietosa e nello stravolgimento della prospettiva, la contemplazione della caduta dell’umano come disfacimento della sua rappresentazione e sedimentazione di forme mostruose, sono i tratti del pittore inglese che hanno esercitato un forte fascino sul regista. Accomuna entrambi la metafisica dell’orrido: la caduta non si lascia fissare in un’immagine negativa, è vertigine e trasformazione. (Lodovico Stefanoni, Cineforum 212)


Velluto blu (1986)

Da Velluto blu si esce agghiacciati e oppressi da imprecisati incubi del passato. C'è un universo di mostri, desideri e perversioni (comune a tutti noi) che giace, dai tempi della nostra permanenza nell'utero, oscurato sotto il livello attivo della coscienza, per risvegliarsi apertamente di notte nel sogno e per determinare oscuramente tutta la storia dei nostri rapporti personali. Velluto blu è chiaramente un sogno edipico; dice senza perifrasi che, per crescere, bisogna uccidere il padre (Dennis Hopper) e fare l'amore con la madre (Isabella Rossellini). Affinché non ci siano dubbi in proposito, il regista fa applicare a Dennis Hopper durante i suoi deliri erotici la mascherina a ossigeno che il vero padre ha sul viso nel suo letto d'ospedale e fa dire al furibondo ex-fidanzato di Sandy, alla vista di Isabella Rossellini nuda fuori dalla casa di Jeffrey, «è questa tua madre?». A questi, affianca una miriade di altri indizi espliciti. Ancora una volta, però, se Velluto blu fosse solo una contorta ma palese metafora edipica (che pure è, come è anche un attacco alla società americana, molto più feroce di quanto sia stato giudicato, il tutto riscritto in nero), sarebbe più divertente che inquietante, più tradizionale che misterioso; un buon film, comunque, ma non un film così radicalmente nuovo. Credo invece che insieme a Rusty il selvaggio di Coppola e a Fuori orario di Scorsese, Velluto blu sia il terzo film americano degli anni '80, intendendo con questo il cinema che va oltre la soglia, anche raffinatissima, della notorietà e apre qualche misterioso spiraglio su un linguaggio in ebollizione, tanto magmatico che solo alcuni tratti possono esserne formalizzati. (Emanuela Martini, Cineforum 260)


Cuore selvaggio (1990)

In Cuore selvaggio l'intreccio richiama alla mente fosche tragedie shakesperiane, dove le passioni adulterine e i rapporti familiari nascono all’insegna della violenza e della morte, frutto di congiure ordite segretamente per punire chi non rispetta la volontà dei genitori. Su questo scenario gravido di sciagure – che trova nel sangue e nel fuoco i simboli adatti a calare la vicenda in una barbarica notte dei tempi – Lynch innesta alcune caratterizzazioni da fumetto, del tutto stridenti con il tono del racconto. La madre di Lula si comporta come Lady Macbeth, ma appare piuttosto come Crudelia, una delle più famose cattive di Walt Disney; Bobby dovrebbe risultare un'inquietante figura di killer, ma la negatività del personaggio viene spinta all'estremo, così che il suo ghigno sdentato sotto la calzamaglia lo trasforma in una specie di zucca di Halloween nell'inverosimile parodia di uno sguardo malvagio e pericoloso; Sailor e Lula parlano come due eroi da fotoromanzo, ma la loro filosofia di frasi fatte e banali deve sempre fare i conti con un mondo che non soltanto non corrisponde ad alcun ideale romantico, ma smentisce anche la visione stereotipata che emerge nei momenti più cupi della coppia («è un mondo crudele, che ha dentro un cuore selvaggio»), in quanto i cadaveri che attorniano i due ragazzi sono veri e vengono rappresentati come tali, sfigurati dal dolore e dalle ferite, senza nessuna concessione alla convenzionalità. (Leonardo Gandini, Cineforum 300)


Fuoco cammina con me (1992)

Il cinema di David Lynch si va lentamente caratterizzando attraverso film di desideri e di bisogni che, via via, tentano di esprimersi. Lynch non teme di rimanere incompreso, inascoltato, accetta, come già prima Luis Buñuel, di depistare lo spettatore, di metterlo fuori gioco. Ciò significa che definire questo film una pura operazione commerciale vuoi dire ammettere la propria incapacità a comprendere il “testo” al di fuori dei meccanismi del mercato cinematografico americano. Eppure Fuoco cammina con me è tutto fuorché un'operazione commerciale. È, invece, un'operazione di analisi, di smontaggio dei meccanismi insiti in un genere televisivo (la soap opera). Come dire che Lynch “ha rotto il giocattolo”, ha operato con gli stessi procedimenti che caratterizzavano i testi degli artisti d'avanguardia. E, come in una seduta di psicoterapia, ciò che conta non è quello che viene realmente detto, ma ciò che viene taciuto, occultato: contano i sentimenti che “irrompono” nel lento fluire melmoso del nostro ragionare. Per questo il film non può essere visto (né, tantomeno, analizzato) con gli occhi della ragione. Meglio “fantasticare” mondi paralleli, magari irreali ed effimeri, ma definitivamente “altri” rispetto al testo. Perché comprendere Lynch, attraverso questo film, è totalmente illusorio, assolutamente falsificante. (Demetrio Salvi, Cineforum 323)


Strade perdute (1997)

Strade perdute è anche, e non marginalmente, un film che affronta il tema del cinema, il cinema in quanto sogno e inconscio (come sempre nei film di Lynch), ma anche il cinema in quanto violenza. Violenza occasionale: quella con cui le immagini di eventi che devono ancora accadere e contemporaneamente sono già accaduti si intromettono nella vita di Fred e Renée. Violenza concreta e assoluta: nel cinema porno del quale mister Eddy è produttore e nel film al limite dello snuff movie che Mystery Man mostra su un minuscolo monitor a Eddy/Dick Laurent nel momento in cui sta morendo con la gola tagliata. Violenza “documentaria”, con la quale l'immagine fissata dalla camera si sovrappone all'immaginario umano: a Fred non piacciono le videocamere, perché "voglio ricordare le cose alla mia maniera; che non è necessariamente la maniera in cui sono accadute..." E, aggiungerebbe probabilmente Lynch, non è necessariamente la “vera” realtà. La riflessione sul cinema nella scelta delle due strutture narrative e stilistiche che caratterizzano i due segmenti. Nella storia di Fred siamo nelle zone d'ombra del noir, con la macchina da presa che si muove sinuosa a sottolineare rumori, evidenziare dubbi, o che si alza a schiacciare i personaggi contro gli sfondi minimalisti dell'appartamento o sul vialetto d'accesso deserto. Nella storia di Pete, invece, siamo nei sobborghi luccicanti di un gangster movie, tra le stazioni di servizio, i motel, le villette suburbane; la macchina da presa è meno insinuante e più diretta, non sfiora le emozioni, ma le dilata, fino a esibire in un ralenti l'apparizione di Alice; la narrazione si apre paradossalmente all'episodio incidentale, semi-comico e “tarantiniano” dell'aggressione armata all'autista che guida incauto sulle colline. La luce e la consuetudine dei cliché dominano sul buio e le esitazioni del viaggio nell'inconscio. (Emanuela Martini, Cineforum 375)


Una storia vera (1999)

Sotto Una storia vera, sotto la serena classicità, sotto la superficie, a fianco delle immagini, c'è come sempre in Lynch un altro mondo, nascosto e oscuro. All'inizio, la macchina da presa scende lenta dall'alto verso una casa e un giardino. In giardino c'è una cicciona molto lynchiana, che mangia dolci e prende il sole, occhi coperti da occhialini, superficie riflettente sotto la pappagorgia. La macchina da presa si ferma fuori, vicino a una finestra. Dentro casa, sentiamo il rumore sordo di qualcosa che cade, rumore che sembra quasi uno sparo. Eccoli, i due mondi: uno si vede, l'altro è nascosto (e si sente soltanto). Alvin è finito lungo disteso sul pavimento, sembra morto. Qualcosa non va nel mondo di Alvin, nel rapporto tra Alvin e la casa, tutte le case. Anche quando, in viaggio, chiede di telefonare a Rose, non entra in casa, si fa portare il telefono fuori. Quando arriva alla baracca del fratello, non entra dentro, si siede sulla soglia. Nel momento più difficile di tutto il viaggio, quando il tagliaerba gli sfugge di mano giù per la discesa, in fondo c'è una casa che brucia. Lungo un film lento e sereno, raccontato, così sembra, tutto in superficie, sono disseminati troppi segnali di disagio, inquietudine, minaccia e morte. (Bruno Fornara, Cineforum 393)


Mulholland Drive (2001)

A Lynch interessa il sogno: ma, più ancora che la rappresentabilità e narrabilità dei suoi meccanismi interni – o meglio, in funzione di una efficace ricerca in quella direzione – gli interessa la particolare collocazione “spaziale” del sogno, se così si può dire a proposito della dimensione ineffabile che lo accoglie. Gli interessa, cioè, il sogno come soglia semiaperta tra l’insondabilità dell’inconscio profondo e la “consapevolezza” che la sfera dell’agire rivendica per sé; come luogo intermedio, nel passaggio tra due universi paralleli, costantemente e paradossalmente in comunicazione nonostante la loro apparente incongruità. Il disagio che la visione di un film di Lynch trasmette anche dopo che se ne è potuto ricostruire una fabula possibile deriva sempre dal fatto che questa possibilità non viene contraddetta ma, anzi, rinforzata da una costellazione di “passaggi” (luoghi di transito della narrazione e del senso) che di per sé sono, però, “impossibili”. Il cinema di Lynch racconta di questi “passaggi impossibili”, è votato alla loro rappresentazione, gioca continuamente con le infinite variazioni (espressive, emotive, figurative, sonore) di cui possono essere oggetto. (Adriano Piccardi, Cineforum 413, 2002)


INLAND EMPIRE (2006)

Se tutto il cinema di Lynch è attraversato dall’azione (e non dal semplice movimento) di sguardi in bilico tra l’oggettività di un narratore esterno e la soggettività di un personaggio interno ma assente, INLAND EMPIRE, proprio grazie al digitale, arricchisce l’incidenza di questi punti d’ascolto e visione disseminati nel racconto al di fuori della classica staffetta delle focalizzazioni, dotandoli di uno spessore carnale e di un’evidenza fisica nuovi e sorprendenti. E per questo ancora più disturbanti. Il primo piano, non casualmente, si trasforma nel taglio privilegiato del film. Un primo piano che non ha attestazioni nell’opera precedente del regista: deformato dall’estrema vicinanza, epidermico, quasi un contatto, si fonda su una tensione percettiva contagiosa. Lynch non si limita a guardare, ma sembra voler letteralmente attraversare, o bucare, la sottile membrana della pelle del viso per entrare nel corpo dei suoi personaggi. E, al tempo stesso, si fa notare: se INLAND EMPIRE è un film sul cinema, lo è proprio perché in ogni inquadratura lo spettatore, contemporaneamente, vede qualcosa e sente, installato sulla scena, vivo, lo sguardo da cui nasce l’inquadratura. Lo spettacolo è sempre duplice, e la tensione amorosa tra Lynch (che figura nei credits anche come operatore) e le sue storie e i suoi attori si fa palpabile. (Luca Malavasi, Cineforum 462)


I segreti di Twin Peaks – Stagione tre (2017)

Ma oggi? Che fare oggi, quando le serie televisive sono diventate più raffinate dei film per il grande schermo? Lynch (che dirige tutte le diciotto nuove puntate) e Frost vanno oltre. In anni di accelerazioni frenetiche, rallentano, si prendono il loro tempo, non giocano sui clichés delle serie contemporanee. E rischiano, spostando un po’ più in alto l’asticella della linearità narrativa, e perciò della complicità con gli spettatori. Ma, nello stesso tempo, nelle prime due puntate mettono talmente tanta carne al fuoco da assicurarsi l’attenzione sia dei fan d’antan che di quelli più giovani. Le location si moltiplicano, sedi di misteri che non sembrano avere connessioni con la storia originaria: New York (una città che appare, in una visione notturna, come fatta di cristallo) e una misteriosa scatola di vetro nella quale, prima o poi, dovrà concretizzarsi un’apparizione; il South Dakota, dove viene rinvenuta in un letto la testa di una donna, mozzata dal corpo di un uomo; Las Vegas, con un boss prepotente e misterioso; e, finalmente, Twin Peaks, con i suoi tempi da soap, i suoi luoghi canonici, i suoi personaggi invecchiati, la sua aria lenta di provincia, i suoi segreti. Il tutto, con sbalzi di stile che vanno dalle astrazioni di Eraserhead ai buchi neri di Mulholland Drive, ma poi ci riacchiappano sempre, ci riportano alla faccia solare di Laura Palmer e al cherry pie. (Emanuela Martini, Cineforum 566)