Se fosse ancora vivo Paul Newman avrebbe cento anni, giorno più, giorno meno rispetto a quel lontano 26 gennaio 1925. Ma ce li ha, cento e tanti altri che si aggiungeranno, rivedendo i suoi film, perché il cinema, quello che conta, senza doversi lambiccare in esercizi dimostrativi, e di cui si sono perse le tracce, consente alle star il privilegio della vita imperitura sullo schermo. Lo schermo è stata la cifra, nella duplice accezione di superficie proiettiva e protettiva, secondo una felice e calzante definizione di Francesco Casetti in Schermare le paure, quello dietro il quale Paul Newman si è nascosto ed esibito, senza soluzione di continuità. In questa sua vita cinematografica e sportiva, da pilota a divo benefattore e politicamente schierato, Paul Newman ha generato un paradigma di lunga durata dove ha contemperato l’essere giovane, quindi incontenibile sul versante edipico, dal western psicanalitico d’esordio di Arthur Penn, Furia selvaggia (1958), al febbrile Lo spaccone (1961) di Robert Rossen, con l’indignazione, condotta per le rime, del sentirsi anziano e perciò capace di trasformare l’amarezza della terza età incipiente in virtù etica, al di là del diritto giuridico, dei limiti delle istituzioni, tra legalità procedurale inseparabile dalla prassi illegale.
I suoi notevoli registi di riferimento sono state ovviamente anche persone, o per meglio dire “intellettuali” a pieno titolo e di cui si è perso lo stampo in quel che resta del cinema contemporaneo, poiché in grado di portare avanti con lui battaglie contestuali ad ampio spettro: in un elenco approssimativo per difetto Martin Ritt (La lunga estate calda, 1958; Paris Blues, 1961; Le avventure di un giovane, 1962; Hud il selvaggio, 1963; L’oltraggio, 1964; Hombre, 1967), Richard Brooks (La gatta sul tetto che scotta, 1958; La dolce ala della giovinezza, 1962), Stuart Rosenberg (Nick mano fredda, 1967; Un uomo oggi, 1970; Per una manciata di soldi, 1972; Detective Harper: acqua alla gola), George Roy Hill (Butch Cassidy, 1969; La stangata, 1973; Colpo secco, 1977), John Huston (L’uomo dai sette capestri, 1972; L’agente speciale Mackintosh, 1973), senza contare i fuoriclasse come Otto Preminger (Exodus, 1962), Alfred Hitchcock (Il sipario strappato, 1966) e Robert Altman (Buffalo Bill e gli indiani, 1976; Quintet, 1979).
Va da sé che invecchiando con titoli sui quali è bello insistere, con il dovuto recupero di alcuni un po’ trascurati e insuperabili nel loro apparente basso profilo, Paul Newman è diventato insomma più intenso nell’intransigenza, all’occorrenza taciturno come una statua di terracotta o al contrario loquace oltremodo, in obbedienza al medesimo spirito di eloquenza e interlocuzione. Anche questa seconda stagione di opere di necessità viene gestito da ulteriori cineasti che hanno avuto presente l’impossibilità, nelle loro condivise metafore esistenziali, di scindere l’impegno civile dal racconto robusto; andrebbero perciò studiate ex novo a partire dalle fondamentali e severe caratterizzazioni del protagonista assoluto davanti alla macchina da presa, dall’apocalittico e diversamente ludico già citato Quintet di Altman al poliziesco cupo Bronx 41º distretto di polizia (1981) di Daniel Petrie, o a stretto giro da Diritto di cronaca (1981) di Sydney Pollack a Il verdetto (1982) di Sidney Lumet. Approdando con Martin Scorsese a quello che ingiustamente può essere definito soltanto il sequel de Lo spaccone, ovvero il poco disneyano Il colore dei soldi (1986), quanto piuttosto in chiave morale una riflessione sul tempo interiore del successo, ovvero – nell’accezione fertile usata da Carmelo Bene – sul supervalutato participio passato di “succedere”. Se l’incipit di questo strano film numero due dell’irriducibile “hustler” più celebre della storia del cinema evidenzia l’importanza di saper giocare con la fortuna in quanto arte, cioè di saperla gestire e capitalizzare al momento giusto, come non riconoscere al diretto interessato il saper sempre rimettersi in gioco: questo è stato, ad arte, il principio applicato da Paul Newman, per ribaltare le regole non in regola del gioco stesso, come nel finale dell’esemplare Diritto di cronaca o, a malincuore, nel dolente Il verdetto, dove vincere significa perdere e viceversa sul piano sghembato delle relazioni affettive e dei valori deontologici.
Difficile dunque prescindere ancora oggi dai suoi frequenti “scherzi” che approdano negli anni Novanta al dittico di Robert Benton composto da La vita a modo mio (1994) e Twilight (1998), come sintomo di un gioco rilanciato e polivalente, e in cui l’inesausto Paul Newman ha inteso mettere in guardia gli spettatori dall’esistente, filtrando con gli occhi azzurri costantemente aguzzi dietro la maschera un sistema complesso e infido, riparandosi all’occorrenza ma rilanciando sempre la sfida, a oltranza. Una testimonianza per tutte basta a farsi un’idea circostanziata di questo suo significativo impianto conflittuale: «Se si volessero psicoanalizzare gli scherzi, si potrebbe dire che sono gesti di ostilità celati, anche se non proprio ben celati. Non si mettono le persone in brutte situazioni in cui vanno in ansia e restano scioccate, in cui qualcuno ha quasi un attacco di cuore. Questa è rabbia vera. Quando più avanti Paul e io ne parlammo, gli ribadii che questa era proprio l’esternazione della sua ostilità. In seguito mi ha detto spesso che l’episodio fu per lui un punto di svolta: da allora non ha più organizzato scherzi. Ovviamente è molto difficile pensare a Paul come a un uomo ostile, in qualunque frangente. È il suo senso dell’umorismo, che francamente in parte è abbastanza terribile, di solito sul volgare. Se ne esce con battute molto divertenti, ma come ammette lui stesso, il suo umorismo viene fuori direttamente dal cesso. A cominciare da Butch Cassidy, Paul finalmente imparò a rilassarsi. Non doveva più farsi largo, e quel ruolo lo avviò veramente a quello che riuscì a diventare per il resto della sua carriera - l’attore alla mano che era stato in principio. Raggiunse un punto di equilibrio e raffinò uno stile proprio. Sta diventando come Walter Huston, che non sembrava facesse mai niente di niente sullo schermo, non sembrava mai recitare: era e basta. Paul adesso ha un po’ di quella classe: non potrebbe fare un passo falso neanche volendo».
L’analisi impeccabile è di George Roy Hill e proviene, tra le tante, dall’autobiografia postuma di Paul Newman, Vita straordinaria di un uomo ordinario (Garzanti, 2022, p. 251). Oltre a dirigerlo più spesso, l’autore di Butch Cassidy ha conosciuto oltremodo bene il suo attore preferito, e nel profondo, sapendo quindi mettere il dito sulla fertile piaga del carattere, anche nell’accezione interpretativa di character, ossia di personaggio in grado di trascendere il film o la pièce, con un occhio di riguardo trasversale e costante a Tennessee Williams, e quindi di dominare la scena e l’inquadratura.
Donde, per (non) concludere, la spontanea scelta per Paul Newman di passare dietro la macchina da presa: con cognizione di causa, da La prima notte di Jennifer (1968) a Lo zoo di vetro (1987), sempre inseparabile dalla straordinaria attrice e compagna di vita Joanne Woodward, ergo Joanne Woodward Newman, a indicare un sodalizio perfetto e un’unità inscindibile nel gioco anche teatrale e cinematografico della coppia.