Tre momenti, in macchina. Tre cameracar laterali, tre segmenti significativi, di un movimento circolare. Almeno quelli, in La prière ci sono. Non sono gli unici, nel decimo lungometraggio di Cédric Kahn che per altri versi arranca, quando non si intoppa, ma danno, più di altri, un senso di consapevolezza precisa, tratteggiando in maniera distinta l’evoluzione del personaggio.
Il primo, in apertura, inquadra l’adolescente Thomas (Anthony Bajon), segnato nel volto, seduto al posto del passeggero; un rumore, un sobbalzo dell’auto, riattivano il suo sguardo di bestia ferita, che si rivolge all’obiettivo e scruta, mentre sta raggiungendo la comunità dove la sua dipendenza dalla droga verrà curata con la preghiera. Il secondo, quando il ragazzo, dopo essersi allontanato dal gruppo per tornare al mondo da cui proviene, ritorna al monte con la giovane Sybille (Louise Grinberg), che lo ha convinto a non abbandonare la terapia: la ronde è apparentemente la stessa, lo sguardo di Thomas è rapito, già intenerito dal sentimento, inchiodato sulla sua salvatrice. Il terzo movimento, sempre nella stessa direzione, è appena prima del finale, coincide di nuovo con un’inversione di rotta, lo sguardo del ragazzo, convintamente rivolto davanti a sé, è dapprima un po’ sornione e poi carico di aspettative, mentre la musica dissolve da una base trance al Bist du bei mir BWV 508 di Bach, che è un po’ il tema ricorrente del film (e in fondo Bach è a tre gradi di separazione da qualsiasi genere musicale).
Tre momenti, riusciti, che scandiscono l’evoluzione di un film che parte bene e poi però taglia le situazioni problematiche con la scure, incartandosi su problemi seri. Il potere terapeutico della parola non è nemmeno da discutere, era già riconosciuto da Ippocrate, e gli ultimi 120 anni circa l’hanno rivendicato a voce alta, con l’analisi (che poi, lo sappiamo, è parente misconosciuta del sacramento della confessione). Ma lì, in entrambi i casi, è un dialogo in praesentia a svolgere la funzione terapeutica, e a ben guardare, anche nella confessione, la fede c’entra solo relativamente. Con la preghiera si tocca una dimensione della parola ulteriore, che prevede appunto la fede, un dialogo in absentia che presuppone l’interrogarsi sulla presenza di un interlocutore non visibile, «Bist du bei mir?», "se tu sei con me" appunto. Ma Kahn non è Bresson, né Tarkovskij né tantomeno Kieślowski, e i ceffoni di Soeur Myriam/Hanna Schigulla convinceranno il giovane Thomas, ma convincono un po’ meno lo spettatore. Che si ritrova a domandarsi come si faccia a scrivere un film in quattro – oltre al regista stesso, firmano la sceneggiatura Aude Walker, Samuel Doux e Fanny Burdino – e non risolvere in maniera meno grezzamente miracolistica, dimenticandosi pro tempore la solidarietà del gruppo e le varie possibili declinazioni di soccorso alpino, la sequenza dell’incidente in montagna a seguito del quale Thomas prende la decisione di una svolta di fede radicale. Che non sarà l’ultima, perché la ronde continua a girare. Forse il miracolo vero lo potrà fare solo l’amore. L’amour, toujours.