Ovvero quale spirito alberga questa sessantottesima edizione del Festival?
Non è difficile ammetterlo: tra mille contrasti, come di queste scale ultramoderne e questa scenografia medievale, aleggia decisamente lo spirito de’ Lo straniero. Ebbene sì, proprio il romanzo di Albert Camus viene in mente durante la visione di tanti film.
Ma al di là dell’atmosfera, è proprio la sensazione alla base di quel romanzo, e cioè che non siamo (o saremo) tanto giudicati, e poi condannati, per quel che abbiamo fatto, quanto, come Meursault, il suo protagonista, per quello che siamo.
Il mondo non accetta colui ( o colei) che ha una sensibilità differente dagli altri. Non è in linea con i cliché della società in cui vive. Non vuole avere a che fare con chi denuncia (neppure troppo coraggiosamente, il coraggio non è qui una virtù) anche solo per onestà, la propria alterità rispetto al comune sentire. Il proprio tenersi fuori dai giochi.
Un po’ come la protagonista (attenzione, non il personaggio ma proprio l’attrice del film) che decide di fare outing sulla sua omosessualità proprio da questa platea. La contraddizione più stridente diventa allora quella continua, incessante ricerca della verità e della bellezza in una vita e in un mondo che sembrano negarle con grande forza.
E, si noti, ciò risulta evidente in modo sorprendentemente trasversale: in molti film e in tante sezioni differenti.
Se in concorso ad esempio in Las Herederas di Marcelo Martinessi quello che spicca è la depressione di Chela - così altera da apparire quasi comica - una cinquantenne completamente persa (interpretata da una bravissima Ana Brun), oggi, dopo la crisi, senza la certezza dei suoi status symbol altoborghesi, e che l’incipiente povertà costringerà a fare i conti con la perdita (di ciò che le era caro) e con l’abbandono (di chi le era vicino),
In Dovlatov di Alexey German Jr. l'aspetto più propriamente e letterariamente esistenzialista si affaccia senza timore sullo schermo raccontandoci gli insuccessi letterari e le fragilità emotive (relazionali e artistiche), di quello che sarebbe diventato, ma solo dopo la morte, uno dei maggiori scrittori russi degli anni settanta.
Grandioso anche qui il protagonista, un Milan Marič che impersona più che interpretare la figura di un intellettuale stanco ma non battuto, sempre ironico, istrionico e vivace, una specie di giullare scomodo per il potere dei burocrati («che ha già determinato la fine degli zar e farà lo stesso col comunismo» come si sostiene nel film), immerso in una fotografia desaturata e un po’ sognante che aggiunge, se possibile, ancora più pathos ad una sceneggiatura già pienamente riuscita.
Che senso ha allora battersi così aspramente contro un mondo che ci è ostile? Quale potrà mai essere il premio per tanto impegno?
Come è facile arguire, nessuna ricompensa è prevista, anzi, è soltanto proprio quella immotivata, imprevista, assurda tensione che distingue l’artista autentico da quello falso, a determinarne il carattere dell’opera, come ben descrive proprio Camus: «Quello che mi colpiva di più nelle loro facce è che non vedevo i loro occhi, ma soltanto un lume senza splendore in mezzo ad un nido di rughe».
Ecco la scelta è fatta. Tra chi soffrirà tutta la vita nel tentativo di affermare l’ironica inutilità del tutto, l’assurda necessitante banalità della commedia umana - e però conserverà un volto e uno sguardo - e chi invece farà finta di crederci davvero, finendo per perdere inevitabilmente sia l’uno che l’altro.