Che cosa spinge un attore grande, talmente grande da potersi permettere di fare una continua ironia, persino sul suo talento, ad accettare una parte piccola, piccolissima, in un piccolo film come quello di Laura Bispuri e a finire, meritatamente, in concorso alla 68ª edizione della Berlinale?
Probabilmente un innato senso delle perfezione, connesso ad un inesausto gusto -seppur sottotraccia- per la sottile provocazione.
Basta osservarlo, godersi le sue espressioni durante questa conferenza stampa subito dopo la proiezione del film Figlia mia qui all’Hyatt di Potsdamer Platz.
Le immagini dicono più di mille parole. Lo sguardo sornione, l’espressione complice, la consapevolezza di far parte di un circo (mediatico o meno) non riesce totalmente ad inquinare uno sguardo che è e rimane sostanzialmente puro (forse anche nel male, come l’Aage Krueger di Kingdom ci ricorda)
Si, va bene, una donna come Valeria Golino non sarebbe rimasta neppure un’ora con un marito come quello raccontato nel film. Sì, d’accordo, Alba Rohrwacher ci ha sorpreso in questo ruolo da prostituta da saloon, cuore d’oro e cucchiaiate di fagioli a colazione.
E passi pure la metafora del buco in cui la piccola Vittoria deve prima entrare per rendersi responsabile di una ri-nascita tutta sua.
Tutto quello che volete.
E tuttavia, sarà pure segno di una follia cinefila, ma quando Udo compare sullo schermo, rosso, sudato, con quella canottiera sporca da nordeuropeo che si è incagliato su quest’isola e la vuole punire per quanto è bella e dura e giusta, e ne compra i cavalli, piccoli, giovani, per farne chissà quali sporchi traffici… Ecco allora ti rendi conto di quanto un film riesca a raccontarti così tanto di più di quanto non abbia previsto una sceneggiatura, pur così certosinamente compilata (due anni di lavoro secondo le indicazioni fornite dall’autrice).
E viceversa ti accorgi di quanto sia fisico, umorale il rapporto che abbiamo con l’immagine.
Un’immagine che se vuol essere pregnante non può certo limitarsi a rappresentare, cercando semmai di evocare, di far intravedere la storia dentro i limiti di un’inquadratura.
Storie di superficie, intendiamoci, niente di intellettuale o di sottilmente psicoanalitico, ma in fondo quanta profondità si intravede già nella vertigine dello spessore di un umile, singolo fotogramma?
Ps: Come non citare almeno in chiusura (e a conferma dell’approccio autoironico del nostro) il racconto dell’ultima telefonata di Lars von Trier, nella quale questi gli dice che sulla locandina del suo prossimo progetto ci sarà scritto: «…un film di Lars von Trier senza Udo Kier e senza Stellan Skarsgard».
«…Ah, bene - risponde lui- così mi confermi che sarò sulla locandina del tuo prossimo film».
Se non è grazia questa…