Quebec. Un'estate come tante. Un viso di donna inquieto, freddo, sembra squadrare le figure che affollano il fuori campo. La camera resta stretta sugli altri visi. Altre quattro donne e un uomo. Chi parla è Mathilde (Marie-Claude Guérin) la direttrice e creatrice di un programma innovativo, sperimentale per affrontare i disagi di ordine sessuale il cui programma si riassume nel claim «l'ipersessualità non è una malattia».
Mathilde sta introducendo il soggiorno di 26 giorni in una scenografica residenza sul lago alle tre giovani donne che ne beneficeranno: Léonie (Larissa Corriveau), Geisha (Aude Mathieu) e Eugénie (Laure Giappiconi). «Questo è un percorso, non un trattamento. Non siete qua per essere giudicate. Prendete tutto questo come una vacanza da quel caos che probabilmente sono le vostre vite».
Queste sono le parole che Mathilde rivolge alle donne presentando loro anche chi le accompagnerà in questo percorso. Non sarà a farlo lei perché incinta, ma Octavia (Anne Ratte Polle), una ricercatrice che arriva dall'università di Düsseldorf, insieme a Sami (Samir Guesmi), migrante algerino che abitualmente lavora in un Centro Giovani a Montréal.
I primi piani stretti tradiscono irrequietezze e imbarazzi e rivelano tratti irrisolti e nervosi. Le pause aumentano l'inquietudine che trasuda da ogni sguardo, da ogni incrocio di sguardi. Si fa fatica a distinguere terapeute da pazienti che peraltro non sono malate.
Il soggiorno inizia. La camera allarga l'inquadratura ed entrano in campo i corpi. Corpi ipersessuati mossi da menti ipersessuali che raccontano “pensieri impuri” che anche molti di noi probabilmente hanno pensato e praticato.
Il soggiorno avanza insieme alla sensazione d’intimità. Ci sentiamo sempre più a nostro agio con le ossessioni che abitano i giorni e le notti di Léo, Geisha e Eugénie e, forse, ci piacerebbe illuminare insieme a loro i lati oscuri di Octavia e Sami e scoprirne anche nostri a cui non avevamo lasciato spazio.
Arriva il giorno libero, ossia le 24 ore in cui le ospiti del “centro vacanze” sono libere di rientrare in città. Come sexual machine telecomandante dai loro desideri, Léo, Geisha e Eugénie mirano alla soddisfazione delle loro “perversioni” che in verità non sono altro che ricerche estreme, insistite di vicinanza e piacere. Ossessive perché intrappolate in meccanismi di igiene sociale che le rende schiave degli sguardi (maschili per lo più) che le giudicano nel momento stesso in cui le sfruttano.
E l'Hygiène Sociale che Denis Coté risolve nel film precedente in piani lunghi e lunghi piani sequenze per ibernare in un'algida commedia le relazioni amorose, qua diventa torridamente (e politicamente) insostenibile. Perché è insostenibile lo sguardo giudicante che queste donne devono sostenere.
Il soggiorno si avvia verso la fine. Nessuna è guarita e in fondo nessuna di loro ne aveva bisogno, né lo voleva. Probabilmente resteranno amiche e questo allevierà il peso di altri sguardi e probabilmente porteranno con loro l'augurio di Diane (José Deschênes), la cuoca che le ha nutrite e osservate discretamente in quei 26 giorni: «Vi auguro di guardarvi diversamente. Diversamente rispetto allo sguardo degli altri su di voi e non solo attraverso il desiderio degli uomini».
E anche noi, arrivati a fine film, abbiamo imparato che lo sguardo ha un potere immenso e che non è mai neutro. Abbiamo fatto un percorso nello sguardo che si chiama cinema e vorremo anche noi tuffarci felici nel lago insieme a Lèonie, Geisha, Eugénie e a Denis Coté prima di tornare al caos che probabilmente sono le nostre vite