Non sono tantissimi i documentari che provano a fare “antropologia culturale” dall'interno, col regista che si mette in gioco personalmente, a forma quasi di reportage diaristico. Toro presentato in concorso al Biografilm Festival, è quel che si può definire un buon tentativo. Rocco (Di Mento) che ha studiato cinema in Germania dove vive da 16 anni, mollato dall'ennesima ragazza (“è uscita a comperare la caffettiera e non è più tornata”) e preda del tipico autocriticismo del progressista metropolitano insoddisfatto, torna alla cittadina in cui è cresciuto, Salò, per respirare la rigenerante aria di casa e ritrovare i vecchi amici, anzi uno in particolare... Angelo. Tra l'amena cittadina sul Garda e la capitale tedesca la differenza è abissale: “crescere da maschio a Salò significa scegliere tra due modelli di esistenza: il freak anarchico alternativo skater che ama farsi male cercando di chiudere i tricks più azzardati, oppure sei forte, deciso, determinato, sei un 'toro'”.
Di origine siciliana come lui, l'amico di infanzia è il modello perfetto per un confronto che diventa inevitabilmente reciproco (come peraltro era intuibile già dal preambolo tedesco), a dispetto dell'idea di ritratto sociale e di costume che si propone di essere. Così, con riprese in diretta senza tagli, turpiloqui e bestemmie comprese, qualche digressione familiare (tipo col padre di Rocco in lotta con le lumache nell'orto), più qualche filmino di gioventù a rimpolpare il contesto, conosciamo Angelo. Che è ormai giunto alla soglia del passaggio da cui non si può tornare indietro, dall'età di Peter Pan a quella in cui si prendono le decisioni per trasformarsi in bravo uomo di famiglia (ormai si toccano i 40), tra una palestra, le serate con le ultime birre con gli amici che a poco a poco vanno prendendo inevitabili strade simili e distanzianti (matrimonio, figli, ecc. ecc.) e tante titubanze a dispetto delle pose virili e “assolute”. In effetti Federico Fellini lo avrebbe definito un “vitellone” sia pure più heavy, 2.0 e mascherato. Perché “a Salò, nella patria dei 'tori' essere un uomo significa prendere delle decisioni, sbagliate o giuste, ma prenderle. Amare sempre chi ti ama e non tirarsi mai indietro. Uno si addestra per proteggere quello che ha”. E l'ex skater alternativo Rocco, così poco muscolare ma sempre “nel” gruppo, nonostante i suoi malesseri esistenziali, non potrà che solidarizzare, con la giusta dose di humour e autoironia, con il coetaneo Angelo, non solo per l'infanzia e la gioventù in comune, ma anche per quello sforzo titubante di rispondere alle medesime domande che l'età ti pone.
Un film che riesce a conservare al meglio una certa spontaneità di situazioni e persone (i difetti di dizione e di recitazione sono la regola del gioco), ma che presume un lavoro realizzativo tutt'altro che naif. Rocco Di Mento (nato a Desenzano del Garda, nel 1984) dispone infatti già di una rimarchevole esperienza nei documentari di argomento sociale. Qui è ovviamente regista, sceneggiatore e voce narrante, ma anche montatore insieme a Valentina Cicogna, con le musiche di Appaloosa e Daniel Freitag. Ha esordito da regista con The Demon, The Flow and Me (2016), e Toro è il suo secondo lungometraggio dopo The Blunder of Love (2020).