Gemma (Imogen Poots) e Tom (Jesse Eisenberg) sono una giovane coppia in cerca di futuro. Lei è una maestra elementare, lui è un tuttofare: si amano, sono giovani, quello che manca loro è una casa da costruire, da condividere, un luogo dove costruire un’ipotesi di stabilità. L’occasione si presenta attraverso un bizzarro agente immobiliare che gli offre una potenziale felicità suburbana, un posto da abitare con la gioia dell’immaginarsi famiglia, un punto zero dove costruire una vita nuova. L’esistenza possibile si rivela però ben presto posticcia: una casa tra tante case, tutte uguali, e un obbligo familiare reso concreto da un neonato recapitato sull’uscio come un pacco, che si rivela presto ingestibile e intrusivo, rivendicando diritti filiali con un potere che rasenta il comando.
Vivarium, opera seconda dell’irlandese Lorcan Finnegan, mette in campo da subito ambizioni e aspirazioni: un racconto distopico – che dalla fantascienza saccheggia idee e stili restando però nell’ambito di un realismo allucinato – che pretestuosamente mescola stili, temi sociali e istanze morali senza trovare mai un suo equilibrio tra forma e contenuto. Le premesse sono altissime: un ragionamento sulle modalità espressive del rapporto di coppia parametrate all’evoluzione socio-urbanistica di un mondo sempre più asettico; la maternità imposta; le regole del vivere civile; l’implosione dell’istituto familiare; la brutta fine a cui la nostra società si è condannata. Tutto questo è trattato con superficiale ostentazione: Vivarium non mostra parsimonia nei modelli di riferimento, anzi è quasi didascalico nella sua ansia metaforica. La suburbia irlandese è una fila di casette tutte uguali che prendono forma e ispirazione dai dipinti di Magritte (con un gusto di serialità ipnotica che discende da Escher); i pratini sembrano omologate moquettes e rimandano un eco lynchiano con un tocco di Toto le héros; le nuvole tutte uguali ricordano il mondo posticcio di The Truman Show.
L’immaginario di Finnegan è un mondo puramente derivativo che quando vuole pescare nell’originalità silenzia il film rendendolo sordo e inanimato. Il problema principale di Vivarium risiede proprio nella discrasia tra ambizione e vuotezza, tra lo sguardo alle stelle e l’implacabile limite della sua messa in scena. Le suggestioni proposte abbracciano una ricognizione astrusa sulla vita borghese, sull’indicibile peso della maternità, sull’ipocrisia familiare per poi risolversi in un’inanimata rappresentazione di un quotidiano mancato, nella banale fotografia di un mondo raggelante in superficie ma profondamente senza vita. Vivarium è in fondo la fotografia di un nulla, che vuole trattare temi e argomenti alti con la supponenza di chi filosofeggia senza cura, con l’arroganza dell’illusionista che vuole stupire non sapendo neanche bene perché. Eisenberg e Poots si piegano fisicamente a questa impostazione posticcia – che si vuole autoriale senza alcuna patente – accettando la natura ondivaga del film, adeguandosi con generosità, assecondando l’idea retorica di chi urla per nascondere la mancanza di idee, di chi pretende di fare una regola di tanto rumore per nulla.