C'è questo breve dialogo tra il performance artist Saul Tenser (Viggo Mortensen) e il poliziotto della New Vice con il quale si incontra di notte lontano da occhi indiscreti: quest'ultimo gli chiede, «Non avrai paura di un piccolo sentimento?»; Tenser risponde «Io ho paura di tutto».
Mi pare rivelatore. E sufficientemente significativo per credere che no, Crimes of the Future non è lo stesso Cronenberg di sempre, il solito Cronenberg; no, non è un'antologia poetica, e non è una rifrittura di temi e di istanze. Quarant'anni fa Max Renn alla fine di Videodrome si sparava un colpo in testa inneggiando «Lunga vita alla nuova carne». Era sia un monito, sia un'attestazione. Era l'ultima resa del soggetto allo stato delle cose.
In Crimes of the Future, al contrario, Tenser, che vive per creare e scoprire dentro di sé nuovi organi, per poi estrarli durante cupe esibizioni pubbliche trans-tanatologiche, tradisce a poco a poco un'inquietudine indefinita. Saul Tenser ha paura: di ciò che da lui ci si aspetta e si pretende, della concorrenza, degli uffici dei registri, dei nuovi anarchici; probabilmente ha cominciato anche ad avere paura di se stesso. Saul Tenser perciò non è un santone. Non è un predicatore. Fateci caso: nel film non impartisce lezioni, sembra invece subirle; non fa prediche, casomai ne è travolto. In questo senso, il percorso di Renn e Tenser equivale, sì: scoperta, estasi, paura, perdita (di sé). Ciò che invece fa la differenza è il trascoloramento ideologico di Tenser, la cui immagine impallidisce, evapora, fino a perdersi in una ripresa in bianco e nero proto-analogica (nell'ultimissima scena).
In Crimes of the Future c'è ben poco future, dunque. Altro che post-sex, post-umano, post-fisico: questo nuovo David Cronenberg è il più umano possibile, il più dolente (ma non funereo), il più cristiano (ma non religioso). Il body horror diventa così una preghiera per ritrovare un (proprio) luogo, lo spazio che ci determina, un'origine e una morale certe. Tenser lo teme, il futuro, benché abbia contribuito a crearlo. «Non ho molta dimestichezza con il vecchio sesso»: con queste parole si sottrae al bacio prepotente dell'ambigua Timlin (Kristen Stewart). Eppure è facile credere che Tenser un po' lo rimpianga, il “vecchio sesso”. O che almeno rimpianga una sua idea più finita, più conclusa.
Che Cronenberg sia diventato improvvisamente reazionario? Mai. Vediamo di capirci: questo regista rimane ancora oggi uno dei più grandi pensatori della storia del cinema, che invece di ripetersi, e di ripetere filosofie sul corpo ormai già chiarite, invoca un'assoluzione. E sapete perché e per cosa la chiede? La chiede perché in questa contemporaneità che lui stesso aveva previsto, diciamo da Scanners in poi, in cui piacere equivale a dolore e viceversa, il peccato è non riuscire più a intercettare e determinare una differenza sostanziale, una soluzione di continuità. Non resta allora che la paura. Avere paura. Avere paura di tutto. Vuol dire percepire (ancora). Vuol dire vedere, udire, sentire, distinguere. Nonostante i numerosi device prostetici, Cronenberg non è né lo stesso di sempre, né invecchiato. La partita di eXistenZ è (già) conclusa. In Crimes of the Future a essere convocata non è la morte, non è la ridefinizione del corpo: è la pace dei sensi in qualità di riconquista identitaria.
Io ho paura di tutto, dunque sono (ancora io).