È il 1989 quando Rose arriva nella periferia parigina dalla natia Costa d’Avorio. Porta con sé due figli – Jean e il piccolo Ernest – e altri due li ha lasciati a casa. Va a vivere da dei parenti, trova presto un impiego come addetta alle pulizie, inculca nei ragazzi l’etica dell’impegno, rifiuta il corteggiamento di un connazionale in nome di un’ostentata indipendenza, intreccia una relazione con un uomo che però è costretto a partire dopo averla spinta a lasciare Parigi per Rouen. Con un salto temporale di un decennio ritroviamo Rose sempre più assente, costretta a fare la pendolare per lavoro, mentre Ernest cresce e Jean manifesta più di un segnale di insofferenza. Sono i suoi problemi, le ambizioni perdute, le delusioni forzate al centro del racconto come lo saranno i primi passi nella vita adulta di Ernest nel terzo capitolo, ambientato negli anni Duemila, ormai lontano da sua madre e da suo fratello, pronto a mettere da parte il passato per ottenere finalmente un futuro tutto suo.
Un petit frère – opera seconda di Léonor Serraille dopo la Camera d’Or 2017 ottenuta con Montparnasse - Femminile singolare – racconta tre personaggi suddividendo la storia in capitoli indipendenti: la madre, il figlio maggiore, il figlio minore. Gli scarti temporali sono quindi accompagnati da uno sguardo sempre differente, che dona movimento al film e spessore ai protagonisti. Serraille, grazie anche alla fotografia livida ma vitale di Hélène Louvart, segue con affetto empatico lo scorrere delle vite di Rose, Jean ed Ernest; accompagna senza paternalismo i suoi personaggi osservandoli amare e sbagliare, allontanarsi e rimpiangersi, perdersi e trovarsi.
Il pregio principale di Serraille è quello di voler (e saper) raccontare il quotidiano di una famiglia africana arrivata in Francia, rifuggendo il canone patetico o brutale comune a molti film sugli emigrati per concentrarsi sui sentimenti dei protagonisti, intessendo con grazia il contesto sociale nelle esigenze emotive dei personaggi: insomma, privilegiando la storia e non il “tema”. Un petit frère in questo modo evita comizi e ci immerge con onestà in questa normalizzazione, che è anche politica, perché parla di lavoro, scuola, inserimento sociale, capacità di integrarsi e determinare il proprio destino. La descrizione del contesto non è per questo messa da parte: le abitudini della comunità africana, la diffidenza per una donna che non vuole cedere alla convenzione/convinzione di aver bisogno di un uomo accanto, il prezzo da pagare per questa indipendenza sono raccontate attraverso gli sguardi incrociati di una famiglia talmente unita da deflagrare per eccesso di amore, speranza, fermezza.
Ci si allontana spesso in Un petit frère, ma il tempo di rimuginare su un passato anche di fallimenti è un lusso che non ci si può permettere. Ernest, il piccolino ormai adulto, non ha dimenticato ma vuole guardare avanti: è l’esemplare rappresentante di una generazione la cui integrazione è elaborata anche in maniera sentimentale. Serraille si dimostra un’autrice sensibile, che con una messa in scena lineare – con qualche scarto eccessivo e qualche scivolata – regala attenzione e umanità ai suoi protagonisti raccontando con sofferta levità anche i dolori più profondi, non calcando la mano, non scivolando mai nel ricattatorio. La sua famiglia ivoriana trapiantata tra le banlieu e la Normandia è fatta di carne e lacrime e sangue: Serraille, raccontandola con onesto pudore, sa regalarle una dignità rispettosa, finalmente priva di enfasi pietistiche.