Concorso

Perfect Days di Wim Wenders

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Hirayama ha circa sessant’anni, vive a Tokyo e non è sposato. Lavora come addetto alle pulizie delle toilette pubbliche della capitale nipponica, ogni giorno si sveglia all’alba e dopo aver compiuto una serie di rituali si reca al lavoro. In pausa pranzo consuma il suo pasto seduto alla panchina di un parco – sempre lo stesso – e scatta una fotografia agli alberi che lo circondano. A fine turno prima di tornare a casa va in un “sentō” (il tipico bagno a pagamento giapponese) per togliersi di dosso lo sporco e la fatica della giornata. La sera nella pace del suo piccolo appartamento legge un libro e si mette a dormire.

L’ultimo film di Wim Wenders – che torna in concorso a Cannes quindici anni dopo Palermo Shooting – è tutto qui. Senza particolari twist narrativi o colpi di scena racconta la vita di un uomo “invisibile”, una persona qualunque che fa un lavoro umile, persino degradante, ma che sembra aver raggiunto una serenità interiore inscalfibile. Certo poi qualche cosa succede e alcuni piccoli imprevisti mutano la routine – un collega che si licenzia all’improvviso, l’arrivo in visita della nipote, il bar di cui è cliente abituale trovato chiuso – tuttavia niente sconvolge la vita placida e metodica che Hirayama si è costruito.

Non è certo un tema nuovo quello che Wenders tratta e non c’è nemmeno un’idea particolarmente brillante alla base del film. Anzi, di opere che celebrano lo stupore per le piccole cose e per la bellezza del quotidiano il cinema d’autore (e non solo) è pieno – e spesso si tratta di film stucchevoli o insulsi di cui ci si dimentica in fretta. Perfect Days invece, nonostante rischi talvolta di perdersi nella contemplazione dell’ordinario, riesce a non scolorirsi nei luoghi comuni e nelle banalità che questo tipo cinema si porta dietro. Al contrario mantiene una grazia e una leggerezza che rendono questa storia sul tempo che passa ritmato da liturgie e abitudini che si ripetono sempre uguali, gradevole e persino commovente.

Perché Wenders, che non si dimentica – e non ci fa dimenticare – di essere stato un grande, grandissimo regista, il senso del film lo rivela nelle pieghe del racconto. Sin dalla scelta della location, il Giappone, e del nome del personaggio principale, Hirayama, Wenders dichiara che l’ispirazione per Perfect Days arriva direttamente da uno dei grandi maestri del cinema nipponico (e mondiale): Yasujirō Ozu (Shohei Hirayama era il nome del protagonista de Il gusto del saké), del quale cerca di riprendere il tipico stile essenziale e sottrattivo. Proprio come molti dei personaggi di Ozu inoltre, anche l’Hirayama di Wenders sembra accettare con serenità i problemi e le difficoltà della vita senza lasciare che i sensi di colpa, gli errori o le incomprensioni del passato intacchino il ménage che si è costruito (l’incontro con la nipote rivela che Hirayama ha tagliato i ponti con la famiglia, probabilmente agiata, e soprattutto con il padre e la sorella).

Ma è soprattutto un film di gesti, azioni, emozioni e passioni Perfect Days, di elementi cioè che molto più della narrazione e della trama riescono a creare suggestione. Come il modo in cui Hirayama svolge il suo lavoro: con un impegno, una meticolosità e uno scrupolo che nonostante la repulsione derivante dall’idea di pulire l’orinatoio o il water di una toilette pubblica – e nonostante l’aleatorietà di tutto questo, come nota il giovane collega dell’uomo – rivela tutta l’umanità del suo spirito. Ma anche per la passione che coltiva per la musica rock degli anni Sessanta e Settanta – il tocco è assolutamente wendersiano – e fa sì che ogni viaggio in auto da e per il lavoro sia l’occasione per ascoltare un brano di artisti classici come Van Morrison, Lou Reed (la sua Perfect Day che ascoltiamo a più riprese è evocata dal titolo), The Animals, Patti Smith e molti altri. E poi ancora i libri – ogni domenica Hirayama compra un nuovo romanzo che terminerà entro la fine della settimana –, la cura per le piante, le passeggiate in bicicletta, gli oggetti analogici (la macchina fotografica con il rullino, le musicassette, il cellulare con la tastiera) che rimandano a tempi, abitudini e usi ormai dimenticati: tutti dettagli che costruiscono un universo emotivo ben definito e che rispecchia con estrema precisione, ma in modo sottile, l’universo valoriale e sentimentale su cui Wenders vuole soffermarsi.

«Ci sono tanti mondi dentro lo stesso mondo» dice a un certo punto Hirayama alla nipote, aggiungendo che non per forza questi entrino in contatto fra loro. Ecco, il mondo che più somiglia al Wim Wenders di oggi è proprio quello rappresentato in Perfect Days. Fatto delle sue esperienze, delle sue memorie e le sue passioni. Forse po’ senile, sicuramente anacronistico e di certo non più audace, innovativo e visionario come un tempo – e per certi versi incarnato dalla Tokyo svuotata e paradossalmente sgombra di traffico e persone nella quale il film è ambientato. Ma un luogo in fondo dove il regista tedesco può ancora genuinamente innamorarsi del cinema, delle persone e della vita. E non è poco.