Nell’ambito dei comic movies, il caso di Watchmen è in assoluto uno dei più trattati e analizzati. Probabilmente più che per la resa del film di Zack Snyder del 2009 (comunque molto interessante), soprattutto per l’importanza dell’opera di partenza firmata da Alan Moore e pubblicata tra il 1986 e il 1987.
Oltre all’imponenza della storia di base (e al suo spessore filosofico), colpisce l’apparato grafico (firmato Dave Gibbons) che sembra fungere da vero e proprio storyboard all’opera di Snyder. Il linguaggio di Moore è già, in un certo senso, un linguaggio cinematografico: le vignette regolari (di forma rettangolare verticale, della medesima grandezza e nello stesso numero in ogni pagina) possono dare al lettore la sensazione di trovarsi di fronte a un’inquadratura pensata per il grande schermo; mentre quelle più grandi (ricavate dall’unione di più vignette regolari) ricordano una carrellata, orizzontale o verticale che sia. Persino il taglio delle immagini appare già come un’indicazione su come renderle al cinema (si pensi al plongée iniziale).
Non è certo l’unico caso, ma si potrebbe pensare che il passaggio dal lavoro di Moore a quello di Snyder non sia un passaggio fra forme testuali diverse, ma una “fase” della stessa. Uno storyboard appunto (e così sarà per altre graphic novel successive) più che un testo da “adattare”.
E dunque, facendo un passo ulteriore e arrivando anche a una piccola provocazione, perché non iniziamo a considerare alcuni film tratti da fumetti (ma non solo) come veri e propri remake? Certo, il concetto di remake è ritenuto applicabile soltanto a testi dello stesso universo linguistico. Ma, in un’epoca sempre più contrassegnata da passaggi interlinguistici e intermediali (tanto da parlare di un vero e proprio “intermedium espanso”, per usare le parole di Federico Zecca), ha ancora senso fare una tale distinzione?