Questo mese abbiamo deciso di dedicare il nostro spazio di discussione a quel film portentoso che è Elle di Paul Verhoeven. E così abbiamo immaginato quasi di chiaccherare intorno a un tavolo sul film, sulla sua protagonista, sull'inafferabile gatto Marty, sui tanti personaggi che li circondano... e inevitabilmente abbiamo finito per parlare non solo di cinema ma anche di morale, di bene e di male, di sessualità, di generi, di corpi, di natura e perfino, quasi, di religione.
Fabrizio Tassi
Elle è un film che non va capito o interpretato. Non c'è un significato da estrarre, un codice linguistico da decifrare. Forse mai come in questo film, il cinema di Verhoeven riesce a essere oscuro (ambiguo, seducente, perturbante) proprio perché trasparente. È diretto, lucido, sta tutto in superficie, come su una lastra di ghiaccio sotto cui puoi intravedere solo il buio, l'abisso. Se ne frega della verosimiglianza (psicologica o romanzesca), gioca col principio dell'identificazione, passeggia tra i toni e i generi (il gotico e l'erotico, il thriller, il dramma e la commedia di costume), ma soprattutto rende limpido ciò che è platealmente torbido, con uno humour luciferino, dentro una specie di sortilegio incarnato da quell'essere sovrannaturale che è Isabelle Huppert.
Giampiero Frasca
Si rischia di forzare un'interpretazione che non è assolutamente agevole, perché il cerchio, per quanto ci si sforzi, (volutamente) non quadra e i conti tornano solo in parte. Non siamo a Hollywood e la cosa è piuttosto evidente, soprattutto nell'inconsistenza dei nessi causali o nei toni di una moralità tortuosa, per cui - ad esempio - l'indignazione per un atto di spaventosa brutalità passa attraverso il primo piano indifferente di un gatto. Tuttavia, pur rischiando la forzatura, Elle si può leggere come un'autentica epitome dell'intera filmografia di Isabelle Huppert, con tutte le inquietudini, il cinismo e le ripetute violazioni (anche sul pavimento) che da sempre caratterizzano gran parte delle donne da lei interpretate. Una sorta di omaggio in vita alla sua carriera che fa della protagonista, Michèle, una fonte di luce irradiante da cui tutto si origina e in cui tutto si rispecchia, così come il pronome del titolo potrebbe già far supporre (non una generalizzazione al femminile, ma proprio Lei, Isabelle).
Fabrizio Tassi
Non è certo un caso che il romanziere della storia sia un uomo debole, dubbioso, amorevolmente impotente e superato, al contrario di lei, potentissima donna d'affari perfettamente dentro il suo tempo, che governa un mondo fatto di immagini e tecnica (e desideri). E non è un caso che tutti intorno a lei si raccontino una storia, la propria storia, interpretino un ruolo nella commedia della vita, mentre Elle le attraversa tutte, (apparentemente) distaccata, distante, dando l'impressione di stare da un'altra parte, tra le forze invisibili che alimentano le cose umane (istinti, passioni, complessi, perversioni, aspirazioni segrete), tanto che tutti alla fine devono fare i conti con lei, ritrovandosi nudi, con la propria ipocrisia e le proprie bugie.
Chiara Borroni
La distanza e il distacco stanno tutti proprio in quello sguardo indifferente (?) del gatto di Michèle. E l’inquadratura su Marty che assiste allo stupro della sua padrona mi ha fatto pensare subito a un altro sguardo di animale visto in un grandissimo film dell’ultima stagione cinematografica. Intendo naturalmente il Marvin di Paterson di Jim Jarmusch; ma mentre il bulldog jarmuschiano è attore di una realtà in cui la simmetria si trova costretta ad accettare la straordinarietà del disequilibrio, dell’incidente, il gatto verhoeviano è spettatore di una realtà in cui tutto è accidente, in cui nulla va per il verso giusto, laddove per giusto si intende conforme (o conformista?). Nulla si mette a posto in Elle, tutto ci arriva vicino ma nulla si sistema. Anzi tutto precipita eppure tutto sta in equilibrio; forse proprio perchè quell’equilibrio si fonda sul distacco (o sull'alterità del vivere in modo naturale e non convenzionale). Non per niente le uniche scene in cui Marty diventa attore fa due cose tanto tremende quanto perfettamente naturali per un gatto come uccidere un uccellino davanti alla finestra e fare un agguato nel buio alla sua padrona. Due azioni naturali ma non conformi all’umano, due azioni alle quali Michèle reagisce nello stesso modo con cui reagisce a tutto il resto.
Emanuela Martini
A proposito di sguardi "puri" (come definirei, più che "indifferenti", gli sguardi degli animali, domestici e non), a me Marty ha fatto venire subito in mente un altro gatto, anzi una gatta: Pandora, la cicciona nera che eredita dalla madre Isabelle Huppert nell'altro grande film che ha interpretato nel 2016, Le cose che verranno di Mia Hansen-Løve. Come la definisce lei stessa, che la porta a malincuore a casa propria dopo essere stata costretta a ricoverare la mamma in un istituto (un "5 stelle", ma pur sempre un istituto), una gatta anziana, obesa, che ha vissuto sempre sdraiata sulle gambe di sua madre. Ma quando Pandora va in vacanza in montagna con Nathalie e vede finalmente l'esterno, la wildlife, inaspettatamente si butta fuori e fugge nel bosco, dove, a differenza di quanto pensa Nathalie, non si perde e non viene uccisa dagli animali selvaggi. Ritorna, dopo molte ore, con una piccola preda, un "cadeaux" per la sua padrona. Pandora, come Marty, non mente e non finge: guarda e agisce con naturalezza. Nella prima inquadratura di Elle, Marty non è indifferente, ma ha un orecchio teso all'indietro; è all'erta, quei rumori forti e quegli atti insoliti lo disturbano e lo preoccupano (tra l'altro è stato lui la causa occasionale dell'irruzione, l'assalitore è entrato nel momento in cui Michèle gli apriva la porta-finestra). Perciò, fa quello che la natura gli suggerisce: si allontana da quella situazione pericolosa, o almeno insolita. Michèle, a questo punto della sua vita, forse indotta anche dall'assalto subito, dall'ennesimo trauma, si comporta come Marty, come Pandora e, in un certo senso, come Nathalie: vive onestamente secondo natura, dice a tutti quello che pensa, confessa peccati che non aveva mai rivelato, sfascia paraurti e matrimoni, ammette le proprie esigenze sessuali e la propria inevitabile dose di masochismo, ritorna a fare i conti con l'altro trauma, gravissimo, dell'infanzia (che è poi all'origine di tutta la storia del film). E in questo senso, il suo è un personaggio perfettamente speculare a quello del film di Mia Hansen-Love: due signore arrivate a un'età in cui la vita è diventata "la vita degli altri" (ci sono nipotini, dappertutto), e allora tanto vale "liberarsi" (anche se nei due film, il concetto assume sfumature leggermente diverse). Elle finisce esplicitamente in un cimitero, Le cose che verranno quasi.
Giampiero Frasca
Verhoeven allestisce in effetti un universo in delicato equilibrio, che gira sapientemente proprio intorno a Michèle e mostra, forse con impropria umiltà, la capacità di camuffarsi. Di fatto, oltre lla presenza luminosa della Huppert, il film funziona per la cura discreta dei dettagli, per i gesti accennati, per il cortocircuito di evidenze collocate sullo sfondo, per quei frequenti secondi in eccesso sui primi piani che significano più di ciò che le parole dicano o le norme sociali permettano (la macchia rossa che si manifesta progressivamente durante il bagno ristoratore dopo lo stupro, lo sguardo verso l'amico di colore del figlio alla nascita di un nipote dalla pelle troppo scura, la risata sprezzante che spezza l'atmosfera di applausi festosi all'annuncio del matrimonio della madre). Ma anche per i contrasti visivi racchiusi in un unico sguardo o in una frazione di spazio (il particolare dell'anulare dello stupratore con la fede in bella vista sull'inguine della donna o la scena in cui lei stessa polverizza in pochi secondi tre generazioni della sua famiglia, rinnegando il nipote, provocando l'allontanamento dell'ingenuo figlio e gettando le ceneri della madre durante il breve istante di un refolo di vento a favore). Una storia tutt'altro che lineare, un'etica dichiaratamente inafferrabile, una struttura a tratti insondabile, ma una serie di elementi che forniscono la misura di una regia attenta e meticolosa, condotta con la sapiente discrezione di chi si fa momentaneamente da parte per lasciare il campo al magnetismo recitativo della sua protagonista.
Roberto Manassero
Oltre a quello impassibile e indifferente del gatto, c’è un altro sguardo in Elle che lascia perplessi, e forse dice tutto. Ed è lo sguardo di Michèle da bambina, visto in tv in un servizio sull’infanzia allucinata della donna. È uno sguardo vuoto, assente, forse folle – eppure fissa, scruta, interroga. Si guarda, ma si finisce per essere guardati. Il corpo di Michèle è uguale a quegli occhi. Quando la donna fa l’amore con l’amante, finge di essere un cadavere, si fa semplicemente scopare dal desiderio dell’altro. Rimanda indietro il desiderio, è uno specchio. Michèle è lei perché è unica, è vuota, è un pronome trasformato in figura. Per questo è, credo, uno personaggio potente e straordinariamente definito, perché è fatta della sostanza di cui è fatta la realtà del mondo che le ruota attorno, prende dagli altri e riflette la loro finitezza.
Fabrizio Tassi
Ma, anche qui, attenzione al possibile equivoco della psicologia da comodino o della sociologia del male. Elle non è un trattato psicoanalitico, uno di quei film presuntuosi e naïf che intendono rivelare ciò che si nasconde sotto la superficie dei comportamenti umani. E men che meno è una rappresentazione (sur)realista e moralistica della malattia del tempo, col suo intreccio di potere, denaro, violenza, menzogna, follia bipolare. È molto meno e, cinematograficamente parlando, molto di più. Lei, Michèle, Isabelle, incarna una libertà che mette i brividi, dentro un mondo in cui tutto è possibile, fragile e (pre)potente, vera e inventata, umanissima e quasi bionica, vittima e carnefice, salvata e dannata.
Federico Gironi
Verhoeven stesso, infatti, ha insistito molto sull’aver voluto liberare Elle dalle catene dei generi, facendone al tempo stesso tutto e il contrario di tutto, come le opposizioni di cui parla Fabrizio incarnate dal personaggio di Michèle. Che però, così come i registri del thriller, del dramma e della commedia del film, non sono due facce della stessa medaglia né un’evoluzione lineare, ma una continua mutazione circolare. La libertà scandalosa sta proprio in questa ovvietà ormai negata: Elle grida che il re è nudo, il suo dire e mettere tutto lì, sulla superficie, è negare che sia oggi utile o produttivo ammantare le cose e le persone - che già sono abbastanza complicate di loro, senza bisogno che arriviamo a complicarle noi ancora di più - di strati di abiti interpretativo-metaforici spesso arbitrari. Di qui, anche, forse, lo sguardo spettatoriale e passivo del gatto di cui parlava Chiara, e l’intuizione di Roberto di leggere Michèle come specchio (esplicito, diretto e impietoso, tutt’altro che psicanalitico) di quello che ha attorno: quella che dice le cose come stanno, anche se le cose stanno che suo figlio è un coglione. Anche Verhoeven dice le cose come stanno, e il suo scandalo è sbatterci in faccia le nostre ipocrisie (anche critiche) come Michèle sbatte in faccia le loro alle persone che ha attorno. In questo è un personaggio salvifico, ma qui si aprirebbe il discorso sulla religione.
Leonardo Gandini
Secondo me l’originalità del film passa anche attraverso la rappresentazione dei videogiochi, per una volta slegati dai soliti discorsi moralistici in relazione al loro presunto potere di corruzione degli adolescenti. Qui il rapporto con la violenza, virtuale e reale, parte da una prospettiva che non riguarda i giovani che li utilizzano, ma gli adulti che li producono. Quasi che i combattimenti, il sangue e la morte da console rappresentino la forma grafica ed esplicita di una violenza che altrove è sublimata, implosa e occlusa, tra le mura di un penitenziario o tra le pareti domestiche. E che tuttavia attraversa i personaggi e caratterizza a fondo, senza eccezione, tutti i loro rapporti. Il mondo raccontato dal film obbedisce a principi di sopraffazione reciproca che nessuna bottiglia pregiata o appartamento ben arredato riesce ad occultare fino in fondo. Tema peraltro caro a Verhoeven, che però altrove risultava meno disturbante, perché confinato all’interno di generi che, dalla fantascienza di Starship Troopers allo ricostruzione storica di Black Book - consentivano una distanza. Qua invece sullo schermo c’è il nostro mondo, il che fa di Elle - almeno questa è stata la mia reazione - un film profondamente inquietante, di quelli di cui non ci si libera facilmente.