Chiuso dall’allarme lanciato da Redford per il timore di una crescita eccessiva in termini di pubblico (difficilmente assorbibile dalla cittadina Park City e per il pericolo di perdere la caratteristica atmosfera di intimità), il Sundance porta a casa un bilancio più che positivo. In termini di qualità media dei film presentati (compresi i tantissimi documentari) e anche, come si diceva nel primo report, per la capacità di discostarsi dall’etichetta di cinema indie made in USA.
La creatura di Redford ha presentato un significativo numero di film non americani (e nemmeno così indie) che avranno sicuramente un importante futuro commerciale nei mesi a venire. Se poi il suo fondatore vorrà creare una cesura temporale tra la presentazione dei lungometraggi e cortometraggi di finzione (a fine gennaio) e i documentari (all’inizio di febbraio), si vedrà nel tempo.
In realtà, va detto, il verdetto finale, con i suoi tanti (troppi) riconoscimenti, ha privilegiato un cinema più prevedibile e convenzionale: Birth of a Nation di Nate Parker (forse in risposta all’esclusione di artisti di colore dalle nomination agli Oscar) e il documentario Weiner di Josh Kriegman, Elyse Steinberg, dedicato al deputato democratico Anthony Weiner, costretto da vari scandali a dimettersi prima dalla Camera dei Rappresentanti e poi dalla corsa a sindaco di New York nel 2013. O ancora film che poco visti, come l’israeliano Sand Storm di Elite Zexer o il colombiano Between Land and Sea di Manolo Cruz e Carlos del Castillo.
Ma forse è meglio così: perché registi come Todd Solondz, James Schamus, Antonio Campos o Kelly Reichardt non hanno certo bisogno di ulteriori riconoscimenti in un festival che ha come scopo quello di scoprire nuovi talenti, nuovi volti, nuove immagini e nuovi stili. Anche se in tal senso i rimpianti sono per lo splendido film cinese Pleasure, Love e per lo struggente Captain America.