Il Pacific Crest Trail (PCT) è il sentiero che percorre gli Stati Uniti d’America dal confine con il Messico fino al confine con il Canada. Attraverso gli Stati della California, dell’Oregon, di Washington e di British Columbia, il percorso panoramico è lungo circa 4.500 km (da San Diego fin su oltre Portland) e varia in altitudine da sopra il livello del mare fin su oltre i 4.000 metri (in Sierra Nevada).
Nel 1995 Cheryl Strayed sfida se stessa, affronta l’itinerario escursionistico e affida l’esperienza al libro di memorie Wild. From Lost to Found on the Pacific Crest Trail. Nel 2014 il regista Jean-Marc Vallèe, lo sceneggiatore Nick Hornby e la produttrice-protagonista Reese Witherspoon realizzano l’adattamento cinematografico e compiono inaspettatamente un vero e proprio miracolo artistico.
Eroinomane, divorziata, infedele, orfana di madre (Laura Dern) e cresciuta senza padre, a soli 26 anni Cheryl Strayed è la donna che organizza meticolosamente la fuga da una vita e al contempo si ritrova sul pavimento di una stanza di motel a soccombere sotto il peso insostenibile dello zaino.
Give me a reason / To love you: la voce di Beth Gibbons mette con le spalle al muro mentre il test di gravidanza e il divorzio sanciscono la fine della prima parte nella vita della protagonista. Bruce Springsteen ricorda a Cheryl di essere Tougher than the rest e la sostiene mentre guada un fiume. Il confine con il Canada è la meta geografica da raggiungere, Leonard Cohen è il cantore canadese a cui aggrapparsi. Ma è El condor pasa di Simon & Garfunkel a risuonare ininterrotta nella memoria di Cheryl: I’d rather be a forest than a street / Yes I would, if I could / I’d rather feel the earth beneath my feet / Yes I would, if I could… come le sussurrava di continuo la madre.
Se il genere on the road sostituì il genere western e l’autovettura sostituì il cavallo, oggi - senza più genere né cavallo né auto - restano i piedi. L’incipit, con il dettaglio orrorifico proprio sui piedi, apre il film in maniera sconcertante e ricorda l’unico possibile sostegno su cui l’uomo possa fare oggi affidamento. E gli scarponi da trekking - costantemente inquadrati in oggettiva o ripresi in soggettiva en plongée - ne sono il chiaro prolungamento mcluhaniano. L’autovettura resta un miraggio (la ricerca di autostop) e il cavallo resta un ricordo (accarezzato dalla mdp di Yves Bélanger e da Laura Dern).
Il presente narrativo, rappresentato dal lungo tragitto percorso sulla PCT, in realtà è solo provvisorio: il passato e il futuro sono le reali dimensioni che più interessano a Vallèe e a Hornby. Vallèe, non a caso anche prodigioso montatore (sotto pseudonimo, John Mac McMurphy) insieme a Martin Pensa, elabora un continuo, ininterrotto, allucinatorio, ipnotico accumulo di flashback che, invece di porsi al servizio dello spettatore con la mera funzione informativa, interviene sul personaggio come un vero fantasma cinematico, intangibile, persecutorio.
Il montaggio, mai così specifico filmico della grammatica cinematografica come in questo caso, edita letteralmente l’intero impianto dell’opera: il flusso di coscienza, la veglia, la sosta, la scalata, la perdita di orientamento e di senso, la memoria, la violenza, la paura, la fame, la disperazione, la colpa. Immagini, sequenze, intermittenze audiovisive che (ri)scrivono quello stesso diario su cui di volta in volta Cheryl annota se stessa e Emily Dickinson, Robert Frost, Joni Mitchell.
Vallèe sottrae, asciuga, rinuncia, disidrata, narra per tagli e commuove per ellissi: il suo lavoro registico stupisce e incanta, a maggior ragione dopo le perplessità agiografiche del precedente biopic Dallas Buyers Club o le ingombranti analoghe operazioni di Into the Wild e 127 Hours.
Reese Witherspoon, talento clamoroso, un tempo ostile fidanzatina d’America (Election di Payne, 1999 e Walk the Line, 2004) raggiunge una perfezione interpretativa impensabile - perlomeno per chi scrive - pochi anni fa. Il naturalismo del vuoto pneumatico a cui è giunta la vita di Cheryl è restituito sul suo volto da un ventaglio di sfumature espressive che arricchiscono la mappa attoriale di genere (Sally Field in Norma Rae, Holly Hunter in The Piano, Cate Blanchett in Blue Jasmine).
Intanto il viaggio prosegue, moltiplica le destinazioni (da Toronto a Telluride a Londra) e trova riparo a Torino dalla pioggia di fine novembre. E chiude trionfalmente la 32ª edizione del Torino Film Festival (in anticipo sulla stessa distribuzione nelle sale statunitensi, prevista per il 5 dicembre).