“Tre ordini di simulacri si sono succeduti dopo il Rinascimento, parallelamente alle mutazioni della legge del valore: - La contraffazione è lo schema dominante dell’epoca «classica», dal Rinascimento alla rivoluzione industriale. - La produzione è lo schema dominante dell’era industriale. - La simulazione è lo schema dominante della fase attuale retta dal codice. Il simulacro di primo ordine specula sulla legge naturale del valore, quello di secondo ordine sulla legge mercantile del valore, quello di terzo ordine sulla legge strutturale del valore”. (Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte)
Abacuc è un personaggio alieno e umanissimo, appartenente a un’umanità terminale, ultimo superstite in un territorio sfinito, fatto di cimiteri e parchi tematici, ruderi e voci registrate che ripetono all’infinito messaggi slegati e privi di connessione logica. In un certo senso è il testimone giunto al termine della Storia: nessuno parla con lui, lui non parla con nessuno, non c’è contrapposizione.
Tutto è bloccato, stremato, reiterato. Forse la sua presenza non è nemmeno reale, ma una specie di riflesso sbiadito di un tempo che è stato e che non è più, come se dell’uomo rimanesse un’eco, simile a quella delle voci dei morti che si sovrappongono e confondono senza dire nulla. Anche il passato è scomparso.
La voce della Marchesa di Montetristo, che annuncia, tra le altre cose, la morte di Igor' Stravinskij altro non è che la simulazione della voce di una persona: non ha tono, non ottiene risposta, dice frasi sconnesse, che una voce maschile ripete in inglese, con piccole variazioni prive di importanza.
Gli unici volti che il protagonista vede sono dei porta-parrucche dai lineamenti femminili, seriali, privi di identità, intercambiabili.
Abacuc di Luca Ferri è una grottesca metafora sulla realtà odierna, in cui i rapporti interpersonali non solo sono sempre più mediati (le voci registrate che il protagonista ascolta iniziano a parlare nel momento in cui l’uomo alza la cornetta del telefono), ma sono anche del tutto privi di dialettica. Una specie di dialogo tra sordi, ormai monco: chi proferisce parola non attende risposta, il protagonista canta un motivetto senza senso, ogni frase è slegata dalla successiva.
Un’umanità non umana, simulata, appunto, ma liberata da qualsiasi finalità che non sia quella della simulazione stessa, in una specie di girotondo assurdo e senza fine. Al pessimismo dell’assunto, Ferri riesce però a donare leggerezza grazie al volto straniato di Dario Bacis (Abacuc), all’uso intelligente della musica – in effetti tutto il film si muove come fosse una partitura musicale – alle parole sconnesse che si inseriscono su visi sfuocati.
Girato in Super8, Abacuc potrebbe essere letto come l’ultimo reperto di un dopo-Storia a cui siamo destinati. Ed è un reperto cinematografico quel che rimane, che a sua volta emerge da un immaginario scarnificato e raggelato, privo di qualsiasi vitalità. In un’epoca in cui il godimento presuppone la ripetizione senza fine degli stessi gesti, delle medesime frasi, di identici meccanismi, quel che resta è una dispersione lenta ma inevitabile, un processo entropico. Quando tutto sarà esaurito giungerà la fine: eppure, come per il paradosso di Achille e la tartaruga, il nostro tempo sembra non dover mai arrivare a conclusione, ma perpetuarsi in un moto ridicolo. D’altra parte, “la situazione è tragica ma non è seria” (Ennio Flaiano).