In un certo senso era scritto che dovesse accadere: che la scena mumblecore con tutto il suo portato di improvvisazione artificiosa, aderenza spasmodica al proprio universo sociale middle-class colto, urbano, artisticamente sofisticato ma soprattutto auto-riflessivo, incontrasse il narcisismo dei social network e tutto quel processo di costante costruzione del proprio sé che con Instagram e Facebook è diventato di massa. E se l’ha incontrato, è proprio perché, in un certo senso, l’ha anche anticipato. Nel frattempo, mentre gli artisti più avveduti di quella generazione come Joe Swamberg e Noah Baumbach sono approdati a strutture narrative più tradizionali all’interno di progetti televisivi mainstream (su Andrew Bujalski, forse il più talentuoso anche se il meno mainstreamizzabile di loro, come si vede dall’ultimo Results, andrebbe fatto un discorso a parte), è normale che le punte più performing art di quella scena finissero invece per insistere ancora di più sull’aspetto formale e meta-riflessivo del cinema indie americano.
Questo Flames, sorta di progetto ibrido a metà tra la fiction, il documentario, il reality show e la performance art, ne è un esempio perfetto. Josephine Decker (a cui già la sezione Onde del Torino Film Festival dedicò una bella retrospettiva nel 2014) e Zefrey Throwell sono due artisti/performer di New York che iniziano una relazione e decidono di seguirla passo per passo con una macchina da presa addosso. Il loro progetto di fare un film della propria storia d’amore si ribalta però ben presto nel fare della propria storia d’amore un film, e lo si vede già dalle primissime scene dove dovremmo vedere i momenti più trascinanti e esaltanti di un amore ma dove tutto ha già un sapore un po’ fake, a partire dalle scene di sesso girate con una mancanza di imbarazzo quasi sospetta (e dove tutto viene montato chirurgicamente per evitare di vedere i genitali di lui, proprio come nei film di Hollywood). A un certo punto, quasi per uno scherzo (o forse proprio per farne una performance), i due decidono di tirare una freccetta su un mappamondo e di partire immediatamente per la località che verrà colpita. Il viaggio che ne segue, in un’isola a largo delle Maldive chiamata “Danger Island”, vedrà la fine della loro relazione sentimentale non prima di una teatrale quanto posticcia proposta di matrimonio di Zefrey Throwell a Josephine Decker nel mezzo di una telefonata intercontinentale alla madre.
Il film a quel punto inizia un percorso a zig-zag che mischia momenti dove i due ormai ex-amanti sono al montaggio e riflettono sulla propria passata relazione attraverso le immagini del film, ai complicati giorni dell’abbandono, dove ci si continua a frequentare ormai da ex durante delle performance alle quali entrambi partecipano o all’interno dello studio di una psicologa durante una terapia di (ex)coppia. Flames insomma prende forma già da subito all’interno di una struttura “meta”, dove più dell’evento della relazione (che per altro dura solo otto mesi su un periodo di quasi cinque anni che invece copre il film) contano le riflessioni, le rappresentazioni, le discussioni riguardo alla costruzione del progetto. Il problema tuttavia sta proprio nella poetica attorno alla quale nasce il film, che suppone che maggiore sia il grado di esposizione meta-riflessiva – ad esempio facendoci vedere il montaggio delle immagini che stiamo vedendo – maggiore sia il grado di consapevolezza.
Durante una sessione di montaggio Zefrey Throwell addirittura si mette a dire «ma quanti livelli meta ci sono qui!», spiegandoci praticamente in modo esplicito che il film vuole mostrare l’artificiosità della messa in scena non tanto di questo progetto specifico quanto della loro stessa vita. È come se ci volessero dire che ci sia un cuore di finzione che emerge dal reale nel momento in cui ne facciamo una rappresentazione per qualcun altro. Questa rappresentazione, però, per due performing artist corrisponde alla vita stessa, prova ne è che i momenti per così dire “autenticamente” di coppia siano essi stessi delle rappresentazioni (sono cioè delle performance, dato che la loro vita è fatta di pratiche artistiche).
Ma c’è un’altra scena che forse è ancora più significativa per comprendere questa riflessione “meta” di Flames, ed è quella dove vediamo una performance di un gruppo di artisti – tra cui Zefrey e Josephine – che seguendo una metafora un po’ tirata per i capelli mettono in scena una partita di strip-poker in una vetrina di una galleria di New York come denuncia della natura predona dell’economia americana contemporanea. Man mano che l’azione va avanti (e gli artisti rimangono progressivamente senza vestiti) le vetrine si riempono di guardoni intenti solo a guardare i corpi nudi delle donne che si stanno spogliando. Josephine si sente sempre meno a suo agio, fino a che, esasperata, mettendosi una maschera in testa si mette ad urlare dall’altro lato della vetrina ai passanti (che per altro continuano imperterriti a scattare delle fotografie). La crudezza della metafora però non riguarda solo la performance ma a un secondo livello parla anche del film stesso: è come se Zefrey Throwell e Josephine Decker ci volessero dire che l’esposizione delle proprie vite allo sguardo degli altri si porti dietro un portato di riduzione a oggetto e di violenza intrinseca.
E tuttavia, come accade spesso a questo filone cinematografico, nonostante l’eterna riproduzione di momenti “meta” e auto-riferiti vi è sullo sfondo una riflessione tutt’altro che banale sulla perdita dell’autenticità, che poi non è nient’altro che una riflessione sulla perdita o, per meglio dire, sull’angoscia della perdita. Baumbach ne ha fatto un’ossessione del suo cinema – tra gli altri in modo oltremodo esplicito in Giovani si diventa – ma l’abbiamo vista recentemente anche nel bel Golden Exits di Alex Ross Perry, due film che infatti sono pieni di nostalgia dell’analogico: videocassette, vinili, fotografie. Come se nell’era dell’indistinzione tra vita e opera d’arte dove tutto viene mediato attraverso un supplemento di finzione, il fascino per una supposta “epoca in cui ci si credeva davvero” diventi irresistibile. Slavoj Žižek lo dice spesso: si crede sempre per interposta persona, mai direttamente.
E il modo in cui si crede alle storie nell’epoca dei social network è quello di proiettarne la verità nel passato. E così pure Flames inizia con delle litografie fatte in modo assolutamente artigianale – che poi andranno a scandire tutti i capitoli della storia – e finisce con una pellicola in 35mm che viene srotolata durante una proiezione (nonostante il film sia platealmente in digitale). Come se il narcisismo da social network o da artisti newyorkesi venisse comunque racchiuso da un senso incombente di nostalgia. E allora non dobbiamo farci ingannare dalla danza di Josephine Decker che balla da sola in una stanza mentre gli Ages and Ages cantano As It Is («Even my post, it’ll pass/ None of this is going to last /I treat it like it ain’t even mine/ So I don’t even need to react»), perché sotto sotto Flames è tutt’altro che un film riconciliato con la propria temporalità. E forse questo, anche al di là delle intenzioni dei due registi, è anche il suo merito maggiore.