Un film che soffre di miserabilismo spinto, nella descrizione molto caricata ed effettistica dell’odissea di una bambina abbandonata all’interno di un Nicaragua che assomiglia molto a un girone infernale. A partire dal luogo in cui lei abita con la madre, in una baracca di latta in riva al mare ma a due passi da una gigantesca discarica che offre ai raccoglitori disperati i detriti della civiltà dei consumi perché ne traggano sostentamento.
Il motivo della discarica come metafora della civiltà non è certamente nuovo (mi ricordo un bel film indiano di qualche anno fa), ma anche tutto il resto puzza un po’ di artificio. C’è molto luogocomunismo: la madre che per sopravvivere si prostituisce, tra uno stupro e l’altro; la figlia abbandonata dalla madre che si mette alla sua ricerca e viene sfruttata e costretta a lavorare nella pulizia degli oggetti recuperati dalla discarica; oscene figure maschili di sfruttatori, predicatori pazzi, poliziotti crudeli, papponi spietati e così via; l’immancabile incontro della bimba con un coetaneo maschio con cui condivide la sventura e con cui intreccia una qualche forma di temporanea relazione affettiva.
Il film spinge a fondo il pedale del patetico, finendo per ottenere risultati opposti alle intenzioni. Esagera, inoltre, nel tratteggiare la bimba come una specie di supereroina, dotata di capacità e risorse straordinarie e di volontà indomita, in grado di sfuggire sempre alle trappole in cui la caccia una società crudele e indifferente, in grado anche di crearsi appositamente una esistenza alternativa basata sui continui sogni palliativi, una comfort zone onirica in cui la madre fuggita le riappare sotto le vesti di fiera dei boschi tenera e mansueta.