Frank canta in un gruppo punk. È giovane, incazzato e scrive testi violenti e provocatori. Niente di troppo strano o originale, se non fosse che vive nell’Ungheria del 1983 dove ogni forma di trasgressione, anche artistica, è mal tollerata, ostacolata e repressa. E allora Frank finisce internato in un ospedale psichiatrico insieme ad altri artisti scomodi e detenuti politici, posto sotto controllo e costretto a una condizione di semilibertà nella quale rischia di impazzire per davvero.
Gábor Fabricius non è ovviamente il primo a ragionare sull’internamento psichiatrico come dispositivo politico e metafora del controllo coercitivo. Eppure, Erasing Frank è un film di grande forza espressiva, capace di cogliere e descrivere molto efficacemente il sentimento e lo spirito di un’epoca. A partire proprio da quell’opera di cancellazione dell’individualità evocata dal titolo: una sorta di intento rieducativo che si trasforma in annientamento psicologico. E che passa inevitabilmente da un annientamento fisico.
Il manicomio funziona in questo senso come una struttura tipicamente foucaultiana, in cui l’internamento diventa una forma di controllo pervasiva che esiste a prescindere da una sua attuazione in termini repressivi. Frank per tutto il film può entrare e uscire dall’istituto e andare più o meno dove gli pare, eppure non esercita mai veramente alcuna forma di libertà personale. Perché il potere su di lui agisce non come una forza esogena o calata dall’alto, ma come un vero dispositivo interno al corpo e alla mente.
L’incubo kafkiano che il protagonista vive diventa dunque una rappresentazione simbolica dell’effetto dei totalitarismi (in senso universale e non per forza legato al solo contesto storico-politico di riferimento) sulla vita dell’individuo. La musica punk in questo ambito – al di là di essere usata come spunto narrativo che si basa su fatti realmente accaduti – descrive e rende ancora più esplicito e macroscopico il conflitto ideologico esistente fra un apparato statale repressivo e un movimento per sua stessa natura anti-sistemico. In un certo modo l’evidenziazione più netta della differenza fra gli ideali socialisti e la loro applicazione come ordinamento politico.
L’uso del bianco e nero, la sgranatura dell’immagine e i lunghi piani sequenza sono funzionali a creare questo clima di oppressione e soffocamento ma diventano anche metafora dello stato di alterazione e confusione che alberga negli animi degli individui che vivono all’interno di un sistema statale tanto rigido. È impossibile non pensare al cinema di Béla Tarr – soprattutto a Le armonie di Werckmeister – vedendo i piani sequenza che seguono Frank fra le corsie dell’ospedale, i palazzi del potere o le strade della Budapest notturna e spenta in cui il film è ambientato. Ma anche per quel senso di sconfitta, disperazione e arrendevolezza che pervade le coscienze di tutti i personaggi.
Un’arrendevolezza connaturata agli individui. A Frank a un certo punto viene concesso di andarsene, lasciare il paese e smettere di essere un problema per lo stato, ma lui si rifiuta e in una sorta di rapporto morboso e masochistico con il potere al quale è sottomesso combatte la propria battaglia fino all’ultimo, costringendo anche l’avversario a operare una scelta e a farsi carico delle proprie responsabilità. E sta forse in questa forma di resistenza autolesionista e in questa cocciutaggine ostinata del protagonista il senso profondo di un film capace di rintracciare, anche dentro una storia durissima e terribile, le crepe di un mondo decadente e destinato a una fatale autodistruzione.