Il nuovo film di finzione di Wilma Labate dai tempi di Signorina Effe (2007) porta con sé una forza politica a suo modo dirompente, pur non essendo dichiaratamente un film politico. Ecco perché cadrebbe in errore lo spettatore che, di fronte a questo racconto di formazione ambientato tra le vie e i palazzoni popolari di una crepuscolare e opprimente periferia triestina, finisse per leggerlo come un film pro-vita nell’accezione conservatrice e cattolica del termine.
È vero che in La ragazza ha volato si parla anche della scelta di abortire piuttosto che tenere un figlio non desiderato, frutto di un rapporto non consensuale tra una sedicenne introversa e un bullo di una manciata di anni più grande che se ne approfitta abusando di lei in modo bieco e violento. In questo caso, però, mi pare più che evidente come, nelle intenzioni della regista, la decisione ultima di portare a termine la gravidanza diventi non solo motivo di riscatto, ma un vero e proprio atto di protesta anticonformista.
Lo è sia nei confronti della famiglia che, senza avvedersi del trauma e della sofferenza della figlia, vorrebbe arrogarsi il diritto di scegliere al posto suo optando per una soluzione immediata, semplicistica e radicale («tanto non succede niente, è ancora giovane» commenta il padre a tavola); ma anche nei confronti di una società chiusa, cieca e bigotta che agli occhi di Nadia, la protagonista, è incapace di offrire prospettive per il futuro, avendo ormai perso qualsiasi possibilità di creare interconnessione emotiva e comunicativa tra le persone. Nel mondo di Nadia, che poi è anche il nostro, la gente ha smesso di ascoltare, di interessarsi ai bisogni del prossimo. Di aiutarsi a vicenda.
La ragazza ha volato si sviluppa a partire da una sceneggiatura inedita dei fratelli D’Innocenzo e, infatti, il milieu è quello proletario, disagiato e senza sbocchi di La terra dell’abbastanza. Lo sguardo di Wilma Labate, però, non è pessimista e soffocante come quello dei due cineasti romani. Pur mantenendo una crudezza e un disincanto di fondo, attualmente tratto distintivo degli autori di Favolacce, l’approccio della Labate è quello empatico, rispettoso e pieno di ammirazione che la lega indissolubilmente alla sua problematica protagonista e che ci riporta con la memoria al suo Domenica (2001). Con una differenza: lì il mondo degli adulti fungeva da ancora di salvezza. Qui no. Nadia è sola, e in quanto tale deve cavarsela senza l’aiuto di nessuno, anche nelle situazioni più difficili, condizione questa che la porterà a diventare grande con largo anticipo rispetto ai suoi coetanei.
Ecco, allora, dove risiede la radicalità del film e della decisione controcorrente di Nadia. La sua scelta di diventare madre, ancor prima che a dare la vita al nascituro serve ed è fondamentale soprattutto a sé stessa. Per spiccare il volo. E solo così, salvare sé stessa.