Janis (Penélope Cruz) ha quarant’anni. Ana (Milena Smit) è un’adolescente. Si conoscono in ospedale poche ore prima di partorire - entrambe madri sole - le loro figlie volute dal caso. Janis ha accanto a sé la migliore amica (Rossy de Palma), Ana una madre (Aitana Sánchez-Gijón) che vorrebbe essere ovunque tranne che lì. Queste donne sono destinate a legarsi indissolubilmente. Ma questa è solo una delle dimensioni che caratterizza Madres paralelas ultimo film di Pedro Almodóvar (preconizzato in una locandina che si intravedeva su un muro di Gli abbracci spezzati), che al lato mélo aggiunge, sovrappone e interseca un discorso sulla Storia che assume una forza drammaturgica e un’intensità politica in lui mai prima d'ora così esplicita e messa a tema.
La Storia lascia una traccia. Sempre. Come il DNA. Indelebile patrimonio genetico che non si può ignorare. Da qui nasce il cortocircuito morale che vive Janis, figlia orfana di madre tossica (che proprio in onore di Janis Joplin le ha dato quel nome), cresciuta dalla nonna in un pueblo agricolo della provincia spagnola. La sua storia personale affonda le radici in questa Storia che non si può ignorare e in particolare nella fossa comune in cui all'inizio della guerra sono finiti molti degli uomini del villaggio scippati alle loro famiglie e alle loro case dai falangisti. A quella fossa inaccessibile, le donne del pueblo hanno legato la propria esistenza, tramandandone la memoria e la collocazione e costruendo sull’ombra che di essa rimane nell’erba la propria dignità e anche la possibilità di dare ai propri figli un’identità, un passato e dunque un futuro.
Anche Janis - che nella fossa sa esserci finito il bisnonno che come lei era fotografo - ha votato la sua esistenza a onorare quella memoria, a restituire a se stessa quell’uomo che non ha mai conosciuto ma che le ha lasciato in eredità il talento di guardare dietro la superficie delle cose e, soprattutto, dietro i volti delle persone. A riconsegnarlo alla nonna che le ha insegnato tutto, anche solo dandogli una degna sepoltura accanto a lei. È stata la battaglia di molti nella Spagna degli ultimi quarant’anni (fino alla recentissima approvazione della legge della «Memoria histórica»), perché la ferita del franchismo è ancora aperta, perché non basta rimuovere i simboli del fascismo per cancellarne la violenza e i soprusi, perché delle oltre duemila fosse comuni sparse in tutto il paese molte restano ancora occultate.
Questa è la memoria storica su cui lavora Pedro Almodóvar. E lo fa mettendoci naturalmente tutti i luoghi che nei decenni hanno scritto e riscritto la natura formale e narrativa del suo cinema: le panoramiche sui seicenteschi palazzi madrileñi, i patios delle case di campagna, le porte che si aprono e chiudono mettendo in relazione e in movimento le scene di una, cento, mille storie. E ancora le cucine rosse e pop della città, le tendine ricamate a mano del contado, le verdure affettate, i dolci caserecci… E poi le donne, le madri certo, ma anche le nonne, le zie, le amiche, le amanti, le figlie. Un mondo di donne che non sono bastanti a se stesse per principio o battaglia o scarsa considerazione degli uomini, ma che hanno imparato a bastarsi per necessità, destino, scelta, imposizione, bisogno. Ognuna diversa, ognuna con le complessità e le semplificazioni, le trasparenze e le contraddizioni, i gesti coraggiosi e le meschinità che le caratterizzano. Ognuna pronta a lottare - anche contro se stessa - per la propria libertà, accettabile o meno che sia.
Cosi il mélo si spoglia, si asciuga e si fa dramma - umano e storico - con una posizione tanto netta e precisa da diventare quasi arringa, dichiarazione d’intenti, manifesto (fermo ma non didascalico, sia chiaro). E così Janis si ritrova per reazione a insegnare perentoria ad Ana - quasi ordinandoglielo - la necessità di guardare e sapere. Perché le ferite del passato si devono rimarginare ma le cicatrici non si cancellano e conoscere il passato e la Storia è un dovere morale ancora prima che un’esigenza. Un obbligo per posizionarsi consapevolmente nel mondo in cui si vive, per scegliere chi si vuole essere, per rendere possibile anche un assetto affettivo e relazionale tanto esteso e improbabile e inclusivo da diventare, probabilmente, l’unica prospettiva accettabile.