Concorso

The Power of the Dog di Jane Campion

focus top image

Dodici anni sono passati dall'ultima avventura cinematografica di Jane Campion (per noi in lizza nell'ipotetica gara della più importante regista di tutti i tempi), quel delizioso Bright Star da tanti troppo snobbato. E dopo una parentesi televisiva con le due serie thriller di Top of the Lake (2017-2019) ritorna ora grazie anche al supporto distributivo di Netflix. Lo fa con un mèlo western dove non si spara o ci si scazzotta, ma in compenso si ama male, tra anime corrose e paesaggi tra inferno ed Eden.

Tra l'altro si tratta del primo film della cineasta in cui al centro non vi è una figura femminile; infatti, si premura a dichiarare, nelle note del catalogo: «In Phil ho sentito l'amante e la sua tremenda solitudine. Ho percepito l'importanza e la forza di ogni singolo protagonista e il modo in cui ciascuno si rivela alla fine». Cosa che peraltro si riscontra puntualmente alla visione.

Montana 1924, uno dei più grandi ranch del territorio è quello dei fratelli Burbank, due personalità diversissime che mal si relazionano anche se ben si sopportano. Tanto Phil è predominante nella sua rozzezza e animalità che scivola spesso e volentieri nella crudeltà gratuita, una esibizione di machismo a nascondere molto bene la sua laurea in lettere classiche (cita i latini e Il piccolo Lord), quanto George (di volta in volta “Georgy bello” o “panzone”) si mostra controllato, mediocre, “quadrato” e spesso apparentemente a disagio nel separato universo dei cowboys. Il “drama” si innesca quando il fratello più urbano sposa la locandiera Rose e se la porta al ranch con il figlio poco virile e abbarbicato tra i suoi sogni e i suoi studi di medicina: «George si è legato alla vedova di un suicida con figlio mezzo rimbambito» è il commento sbraitato del fratello che da subito, immotivatamente, prende ad odiarli. Episodio su episodio, rancori e svelamenti progressivi dei caratteri si gonfieranno sino a produrre impreviste, tragiche circonvoluzioni del destino, che qui ovviamente non riveleremo.

Il film che, a dispetto della sua collocazione geografico-narrativa, è stato girato in Nuova Zelanda, tra Otago e Dunedin, è tratto da un romanzo scritto da Thomas Savage e pubblicato nel 1967 (in Italia lo ha editato Neri Pozza). Ovviamente la regista, riscrivendoselo, lo ha adattato ai propri interessi, aggiungendo ma soprattutto tagliando parti che peraltro molto spiegano soprattutto della personalità contorta del titano Phil, riaffermando comunque quelle che sono le peculiarità della sua poetica autoriale. Anche qui costruisce le scene sempre trovando una sua morbida eccentricità di visione ma soprattutto mostra la crudeltà degli atti e degli animi (e vi assicuriamo che questo film possiede una dura anima noir se non horror) con un'irresistibile (direi quasi insopprimibile) delicatezza ed eleganza.

Pare che non sia stato facile assemblare il cast. L'inglesissimo Benedict Cumberbatch ha comunque doti istrioniche tali da trasformarsi senza fatica in un mandriano finto bifolco dalla psicologia contorta e una sensualità repressa ma affiorante; il texano dal facciottone All American Boy Jesse Plemons ha sostituito senza sfigurare il previsto Paul Dano; Kirsten Dunst regala al suo personaggio un'espressione finto solare capace di nascondere ogni vizio e il giovane Kodi Smit-McPhee appare da subito una figura lunare, le cui ambiguità sono ancor più profonde di quelle apparenti.

Tutto benissimo dunque? Certo, se la trama non si fosse un po' “seduta” nella sua parte centrale, in una action tutta interna ai personaggi con qualche salto narrativo e senza spiegazioni di elementi pur significativi, parleremmo di un rientro trionfale, da evento. Ma anche se così non è, si tratta di cinema di serie A di una Autrice che ha ancora moltissimo da dire.