Toni (Roberto Citran) e Pietro (Paolo Pierobon) sono l'anima tradizionale della famiglia, quella attaccata a un'economia e a un sostentamento che viene dalla laguna, dalla natura salmastra della storia, dai carapaci non ancora induriti delle "moeche". Sono pescatori, gente di barche e di reti, di acqua e di gesti che si ripetono sempre uguali. Alvise (Andrea Pennacchi) no. Non ama l'acqua, non ha mai davvero imparato nemmeno a nuotare, nonostante i tentativi brutali di formazione da parte del padre e dei fratelli. Alvise guarda al futuro, a un'economia che si muove e che sfrutta il territorio a uso turistico, guarda al domani. C'è un equilibrio precario tra loro che si regge, nonostante le tensioni, un equilibrio che improvvisamente però verrà sconvolto.
Come la famiglia di Welcome Venice è colta di sorpresa dagli scherzi del destino, lo stesso Andrea Segre è stato colto di sorpresa dalla pandemia mentre era a Venezia a lavorare al progetto. Sorpresa, immobilità forzata, sconvolgimento, costrizione a rimettere tutto in discussione sono stati alla base infatti non solo del fantasmatico Molecole che ha avviato la mostra di Venezia l'anno scorso, ma anche di questo film scritto a quattro mani con Marco Pettenello (che ce ne aveva parlato nell'intervista pubblicata su Cineforum n° 0).
Un film sincero e nitido, profondamente umano come lo è il cinema di Segre, che racconta di una famiglia veneziana “normale”, di pescatori, di gente che lavora, che fa studiare i figli, che vive lì da sempre. Una famiglia in cui qualcuno intuisce le possibilità economiche che si aprono all’idea di mettere a reddito turistico la bella casa della Giudecca che da sempre appartiene loro. E qui iniziano le difficoltà, la tensione e gli scontri tra due posizioni che sono anche due modi di stare al mondo: quello di un radicale attaccamento alla tradizione e alla memoria e quello di un più dinamico, e anche sfacciato o perché no disperato, guardare al futuro e al cambiamento. Due modi che sono quelli che caratterizzano la posizione di Pietro e Alvise ma che sono anche le correnti, le onde - anomale o meno - che investono quel microcosmo unico e irripetibile che è Venezia oggi.
Il mondo cambia, il paesaggio cambia, il clima cambia, l’economia cambia. Ma Venezia ha forse più difficoltà a cambiare così profondamente segnata nel suo essere da potersi difficilmente adattare a tutti questi mutamenti. Se non forse subendoli. O chissà. Ragioniamo su quel che conosciamo, investiamo su quello che speriamo. Guardiamo al passato cercando un futuro migliore. O no. Senza capirci troppo. Se poi ci si mette di mezzo una pandemia che quel mondo in cambiamento lo ferma, lo arresta per assestare un colpo che lo farà andare in chissà quale direzione, le cose si complicano. Segre e Pettenello non potevano ignorare la pandemia scrivendo un film che parla di investimenti immobiliari, di economia del turismo, di movimento di persone ma lo fanno in modo sottile e intelligente, sussurrando la presenza della rivoluzione pandemica sotto una dinamica già in atto, inglobandola in un discorso ben più ampio di percezione del cambiamento e di possibilità di amministrarlo, metabolizzarlo, digerirlo. Un discorso che senza difficoltà può trascendere il profondo legame con il luogo in cui è calato per diventare una riflessione - spaesata e incerta come lo siamo tutti noi - sulle possibilità del vivere le trasformazioni.