Nel mezzo e un tot del cammin di sua vita, Alejandro G. Iñárritu (classe 1963) mette in scena quasi se stesso, la sua immaginazione, il suo percorso ideologico emotivo, soprattutto le sue paure e incertezze. Lo fa in forma di “falsa cronica”, inventandosi un personaggio che pure fisicamente lo ricorda, il giornalista e acclamato documentarista Silverio Gama (del resto Fellini ha pensato a Mastroianni per il suo ombelicale e onirico 81/2, dunque...) e lo lancia in una sorta di tour surrealista, nella maniera folklorico-sociale-grottesca cara a più di un autore latino americano, da Jodorowsky a Ripstein, a Reygadas.
Si parte con un'ombra che compie nel deserto balzi sempre più lunghi, cercando di librarsi in cielo e si prosegue con un neonato che dopo essere uscito viene “ricacciato” nell'utero della madre («non vuole uscire, dice che il mondo è una merda») e poi via con 174 coloratissimi e fragorosi minuti in cui si passa dal sogno alla realtà senza stacchi o soluzioni di continuità, sino a un lungo ed estenuato finale che spiega tutto (peraltro “bardo” nel buddismo connota uno stato a metà tra la vita, la morte e la rinascita....).
Silverio (lo interpreta il Daniel Giménez-Cacho di La mala educaciòn e Zama) vive da anni negli States con la famiglia, emotivamente e culturalmente in bilico tra l'affetto indissolubile per la patria messicana e l'avvenuta integrazione americana («siamo emigranti di prima classe noi»). Mentre i telegiornali parlano dell'acquisto della Baja California da parte di Amazon, lui, cineasta impegnato e sempre dalla parte dei miseri, sta per ricevere a Los Angeles il prestigiosissimo premio Alethea all'etica giornalistica, primo latino americano a riceverlo («il paese che rispetta solo il denaro, ti darà un premio!»), scatenando entusiasmi in patria ma anche feroci commenti di ex amici («un fighetto borghese che vuole raccontare la vita degli emarginati»).
Incertezze, ricordi infantili, lamentazioni, sogni, incubi e fantasmi di famiglia (con il padre che dice una cosa vera e amara: «La vecchiaia arriva all'improvviso e tutto si converte in un lavoro complesso»): è un flusso di immagini, parole, musica – gran versione di Let's Dance a cappella – con messaggio destinato al pubblico non molto sconvolgente (si poteva fare di meglio) ovvero che «la vita è una serie di eventi senza senso».
Ammettiamo pure che, se avesse scorciato un finale che appare interminabile, Bardo ne avrebbe di molto guadagnato, ma quel che rimane infine è una carrellata grottesca e abbacinante di invenzioni visive che qualche volta sanno di citazione cinefila (Bergman, Fellini), altre – e tante - di pura e prodigiosa originalità autorale tutta sua; del resto con una filmografia che annovera, tra gli altri, titoli come Amores perros, 21 grammi, Birdman, The Revenant, l'eccelso mestiere è assicurato a prescindere. Poche volte, in queste tribolate stagioni di stitichezza produttiva e lockdown, ci è capitato di godere di scene di massa come queste, costruite con un ritmo e una precisione millimetrica da Maestro della messinscena. Su tutte, per noi, resta il lungo piano sequenza in cui il protagonista cammina lungo un marciapiede all'inizio desolantemente deserto, da film post apocalittico, per popolarsi a poco a poco di persone e dei rumori del quotidiano.
A suo modo grande cinema, e la personale alta valutazione del film vuole sottolineare soprattutto questo, a dispetto di kitcherie, di qualche sorpresa telefonata e battute a volte da bacio perugina midcult.