Alice Diop è stata fino a oggi una documentarista. Da francese e da figlia di genitori senegalesi, ha raccontato la banlieu parigina e la condizione di straniera nel proprio mondo; la consapevolezza comune a migliaia di altre persone dell’evidenza del colore della loro pelle, dell’incertezza della propria identità e della paradossale invisibilità della propria esistenza.
Ora, dopo il film summa del suo lavoro, Nous, vincitore della sezione Encounters nella Berlinale 2021, mosaico di vicende anche autobiografiche raccolte lungo il tragitto della RER parigina, Alice Diop ha realizzato il suo primo lavoro di finzione, Saint-Omer, ispirato al vero processo che nel 2016 si tenne nel tribunale di Saint-Omer, nel nord della Francia, nei confronti di una donna senegalese accusata di aver ucciso la figlioletta abbandonandola su una spiaggia con l’alta marea.
Diop, che seguì le fasi di quel processo, immagina una scrittrice e docente universitaria, francese d’origine africana, che assiste alle sedute in tribunale per scrivere una versione aggiornata della Medea. Il mistero di una donna che diventa madre e distrugge la vita che ha portato in grembo, e prima ancora il mistero di una donna che resiste a ogni tentativo di essere ridotta a luogo comune (assassina, infanticida, bugiarda, immigrata, poveraccia), invadono le certezze della protagonista e di conseguenza le immagini del film.
Le sequenze del processo, che occupano buona parte del racconto, con il loro passo cadenzato e straordinariamente controllato (piani fissi e quasi centrali, equilibri tra varie tonalità di colore, angolazioni e distanze calibratissime) generano una strana forma di solennità: vale a dire, quel passaggio dalla realtà bruta alla sublimazione poetica che la protagonista spiega durante una lezione su Marguerite Duras e Hiroshima mon amour. Diop segue le deposizioni in tribunale con una precisione geometrica, rimettendo in scena il processo senza fretta e con precisione, superando però il dato reale attraverso un attento gioco di montaggio: i primi piani dei parlanti sono seguiti dai piani di reazione di chi ascolta con tempi sfasati o stacchi inattesi; spesso la voce di chi parla arriva dal fuoricampo mentre le immagini mostrano volti inermi e attoniti. In questo modo le parole pronunciate nel tribunale di Saint-Omer riverberano oltre lo spazio e il tempo del film; superano il contesto della legge degli uomini ed entrano nel regno dell'anima. Parole che raccontano la frustrazione di una studentessa cresciuta in una famiglia colta e benestante e costretta a perdere ogni certezza; parole che ricostruiscono un amore infelice per un uomo maturo e codardo; parole che portano nella solitudine devastante di una gravidanza segreta, nella certezza di una possessione demoniaca, nella logica assurda di chi sceglie di affidare la propria bambina al mare, madre più grande e accogliente...
Inevitabilmente, mentre il film prosegue con il suo passo solenne e magnetico, emerge sempre di più la sovrapposizione fra l’imputata assassina e la scrittrice protagonista, anche lei prossima a diventare madre e figlia di una madre spezzata, spaventata dalla possibilità di rifiutare la maternità, di trasformarsi in una nuova Medea (sullo schermo di un pc si vedono anche passaggi del film di Pasolini), di farsi invadere da pensieri mostruosi.
La limpidezza dello stile di Diop rivela in questo modo una natura inevitabilmente didascalica - o meglio programmatica - come rivelano del resto il parallelo suggerito tra le donne francesi rapate a zero perché amanti dei soldati tedeschi e l’immigrata infanticida (dunque mostri svergognati dalla propria colpa) o la serie di primi piani di donne presenti al processo, mentre l'avvocato difensore, donna anche lei come la giudice, tiene l’arringa finale per chiedere l’assoluzione della propria cliente in nome del mistero insondabile e spaventoso della maternità…
Del cinema di finzione Saint-Omer possiede la forza impareggiabile della messinscena, la natura universale delle sue immagini calibrate, profondissime. Del cinema documentario gli manca però l’apertura all'imprevisto, alla possibilità dell’incontro con il dubbio, con l’incertezza, patendo forse la nettezza di una lettura che il montaggio impone in modo semplice ma inappellabile.