«Non sono un poliziotto, sono un magistrato», ripete quietamente a tutti quelli cui si presenta per interrogarli (criminali, loro amici, parenti, testimoni) Simon Weynachter, magistrato divenuto direttore di una unità investigativa delle dogane che nel 2008 incappa in una delle frodi finanziarie più redditizie del XXI secolo, resa possibile anche dalle incertezze, gli smottamenti, il fumo sollevati dal disastro della Lehman Brothers: detta anche “la rapina del secolo”, la frode dell’Iva sulle quote del mercato del CO2, che consentivano alle società di scambiarsi quote del diritto a inquinare e che costò un patrimonio allo stato francese (e altrettanto fruttò ai suoi ideatori), generando, come dice Weynachter, «un bagno di sangue e miliardi andati in fumo».
Di denaro e di sangue, di questo parla la bella serie tv diretta da Xavier Giannoli, che l’ha anche scritta con Jean-Baptiste Delafon, basandosi sul libro inchiesta di Fabrice Arfi. Ma, precisa Giannoli nella didascalia iniziale, non si tratta di un documentario ma di un’opera di finzione ispirata a fatti realmente accaduti e a personaggi esistenti. Dodici puntate di 52 minuti ciascuna, tra Parigi (quella dei ricchi e quella multietnica di Belleville), Manila, la Tunisia, Tel Aviv, Deauville, tra casinò, hotel più o meno lussuosi, yatch, ippodromi, bar-ristoranti familiari e magioni di ricchi e ricchissimi, tutti costellati di banconote, gioielli, sacchetti delle griffe più costose, champagne, ragazze svestite e uomini fuori di testa a causa del denaro che letteralmente piove loro addosso (quasi 300 milioni di euro!), vanitosi, narcisi, ognuno secondo le proprie origini e i propri mezzi: Alain Fitoussi, detto Fitous il Dandy, ebreo di Belleville dedito a truffe Iva sul mercato azionario insieme al suo amico grassoccio Bouli, indossa sciarpe e camicie sgargianti e stira le banconote perché i soldi gli piacciono puliti; mentre Jérome Attias, giovane trader di famiglia ricca (ma non tanto quanto quella miliardaria e snobbissima del suocero Frydman), si specchia addirittura nella propria gigantografia a torso nudo che campeggia nel guardaroba di casa. Incompatibili, s’incontrano a un tavolo di poker e poi, non più per caso, all’ippodromo di Deauville. Un gioco di incastro, che poi si riavvolgerà su se stesso.
Tutto questo viene raccontato da Weynachter, che nel 2017 testimonia davanti al Tribunale Distrettuale di Parigi. I flashback si alternano alla sua narrazione e si muovono dall’eccitazione frenetica del gioco e della truffa agli interrogativi pressanti e intimi posti dai rapporti familiari e personali di ciascuno dei protagonisti, magistrato compreso. Giannoli scrive e gira con precisione, capace di far entrare nei meccanismi della truffa anche chi di finanza non capisce assolutamente nulla, di trasmettere l’adrenalina del gioco, del rischio, della sfida, senza tuttavia dimenticare i confini morali e umani della vicenda, del mondo stesso in cui questa si sviluppa. Ognuno ha i suoi guai, in un universo di famiglie frantumate e conflittuali, di religioni diverse che finiscono comunque per benedire crimini e misfatti, esattamente come una ministra francese “benedice” pubblicamente la nascita di Overgreen, la società che dovrebbe combattere l’inquinamento, proprio mentre, in sintetico montaggio parallelo, i truffatori incassano denaro dai mercati. Usa spesso il montaggio parallelo, Giannoli, incalzando i personaggi e connettendo le azioni; ma contemporaneamente sa fermarsi sui primi e primissimi piani dei volti, sulle telefonate faticose, gli interrogativi ansiosi, le solitudini notturne, gli sguardi, i silenzi, il grande schema grafico appeso nell’ufficio della squadra investigativa che continua a riempirsi di nuove caselle. E sa costruire storie collaterali: la figlia di Weynachter, la moglie di Attias, lo steward Jean-Yves e la banana con la buccia, il truffatore internazionale Zagury, che vive a Tel Aviv e che definisce la collaborazione tra un imparentato con i Frydman e i tunisini di Belleville “uno shock culturale”. In mezzo a tutti, la faccia ostinata e triste di Vincent Lindon, il samurai delle dogane (altra definizione di Zagury), un magistrato che conosce il poker, le sue mosse e i suoi bluff ed è, perciò, pericolosissimo per i brillanti imbroglioni del mercato finanziario. Come nelle Illusioni perdute Giannoli era riuscito a tenere insieme il groviglio di vite intrecciate rendendo contemporaneamente lo spirito di quel tempo, così qui ci restituisce vite, fisionomie, comunità che si sbriciolano sotto la spinta di una dissoluzione ambientale, morale e storica che pare inarrestabile.