Alla vigilia del Capodanno 2000, ricchi e riccastri convergono nel sussiegoso Palace Hotel, castello-albergo arrampicato in una valle Svizzera, tutti vagamente intimoriti dal supposto bug che manderà in tilt i computer del globo. Tra questi spiccano un arrogante rozzo e iperabbronzato uomo d'affari americano; un pornoattore ora in disarmo; un quasi centenario con la sua nuova moglie, una 23enne obesa texana; un gruppo di poco raccomandabili ceffi russi; una solitaria nobilotta francese ormai in là con gli anni e ancora vogliosa con cagnolino cagone; un rinomato chirurgo plastico con moglie vagamente suonata, più una galleria di anziane dame assemblate dal bisturi (e tra cui si riconosce Sydne Rome).
Già dalla mattina il personale dell’albergone de luxe avranno così un affannato daffare per gestire le bizze e gli inevitabili disastri provocati da questa fauna mostruosa.
Come in un film old style, tanti rivoli convergono sino all'apoteosi del caos della festa finale (che peraltro dista mille miglia dall'irresistibile catastrofe di un Hollywood Party).
Jerzy Skolimoski (qui con la moglie Ewa Piaskowska) torna a lavorare con Roman Polanski; insieme avevano creato Il coltello nell'acqua, uno dei film davvero epocali degli anni '60. Con The Palace evidentemente e purtroppo non concedono il bis, anche se va precisato che, anche a 90 anni appena guadati, il regista di Rosemary's Baby, Chinatown (che qui viene argutamente citato) sino all'ultimo L'ufficiale e la spia, non ha perso in lucidità, polso e capacità di orchestrare con ritmo una sceneggiatura.
Regista e coautori giocano sul pedale della mostruosità fisica e comportamentale dei clienti, contrapponendo loro l'efficiente (quasi) imperturbabilità di direttori, concierge, cameriere, cuochi.
Il grottesco esibito di ogni situazione di fatto allontana qualsiasi sospetto di critica di classe o polemica sociale mirata per diventare quasi un divertissement antropologico, se non morale. Si sbeffeggia la futilità, la disonestà, l'egoismo spicciolo di una élite, cercando il comico e scivolando nel greve e nel volgarotto.
Ma soprattutto, cosa davvero funziona poco (o almeno a intermittenza), in questa rara escursione nella comedy di Polanski (però citiamo almeno i parodistici Per favore non mordermi sul collo – l'unico completamente riuscito – Che? e Pirati)?
La risposta è piatta e banale: si ride a fatica e a denti stretti. Guardando Luca Barbareschi pittato mattone che imita il Christian De Sica senza raggiungere le sue cifre comiche o le macchiette di Fanny Ardant o di Mickey Rourke che sembra appena uscito da Sin City, la risata non scatta mai. L'unico spezzone in questo senso riuscito è quello di John Cleese, miliardario neo sposo e quasi centenario, che passa dalla piccola morte (come chiamano l'orgasmo i francesi) a quella definitiva però con un sorriso beato sulle labbra, lasciando l'obesa mogliettina texana in imbarazzo e anche in ambasce per una questioncina di eredità.
Milan Peschel nei panni del mediocre bancario Caspar Tell che finisce irretito da Rourke in una complicata truffa tecnologica sembra poi una ulteriore variazione dello schlemihl, lo sciocco sfortunato della tradizione yiddish, ma è l'ulteriore conferma di un racconto più tradizionale e compassato di quanto le sue esuberanze espressioniste e triviali vorrebbero far credere.