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Babygirl di Halina Reijn

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Davvero qualcuno si stupirebbe nel sapere che una donna in carriera, affermata e potente, senta nella sua intimità il bisogno di farsi chiamare «my babygirl» e si abbandoni completamente all’altro? Tutto già visto in molte storie con protagonisti maschili: il potere e le responsabilità possono far emergere il bisogno di invertire i ruoli e liberarsi, per gioco e temporaneamente, del peso che si ritrovano a dover gestire. Elementare. In realtà quello che davvero stupisce di Babygirl, descritto dall’attrice Nicole Kidman e dalla regista Halina Reijn come un film liberatorio, «dove si parla del desiderio dal punto di vista delle donne», è che presenta narrative e punti di vista sul sesso e la condizione femminile già vecchi e per nulla “politically uncorrect” come sembrerebbero ambire.

Certo, il film inizia con una scena di sesso coniugale che poi si protrae, per la signora, con l’uscita dalla camera da letto e una masturbazione in solitaria davanti a un porno. E certo, la protagonista soddisferà suoi desideri fuori dalla coppia, in questo caso fra le braccia di uno stagista più giovane di lei nell'azienda high tech newyorchese di cui lei è l'amministratore delegato. Ma davvero qualcuno pensa che questo sia sufficiente per indicare la via a una nuova narrativa sui bisogni erotici nascosti delle cinquantenni di oggi? Aggiungiamoci allora un leggero masochismo accompagnato da un accenno di umiliazione (niente che le 50 sfumature non avessero già raccontato ampiamente). E visto che non è ancora abbastanza, c’è pure un giro in un rave frequentato solo da giovanissimi con tanto di invito (accolto) ad assumere sostanze stupefacenti e un bacio saffico. E questo è quanto dobbiamo farci bastare per essere travolte dall’esprienza “liberatoria” della visone del film e dell’immedesimazione della protagonista.

A ben guardare, in realtà, Babygirl nasconde (e non ha nessuna intenzione di smontare) il solito vecchio tabù: possiamo lasciare le donne al potere, possono essere ricche e famose, ma che non si azzardino a tradire il marito. Soprattutto se questo è un bravo padre, devoto, supportivo, gentile. Un po’ come a dire che ora che gli uomini sono diventati come abbiamo chiesto loro (collaborativi nelle faccende domestiche, coinvolti nell’educazione dei figli, rispettosi dei nostri no) non siamo più autorizzate a lasciarli. Ché gli errori sono contemplati, ma non quello di pretendere il piacere, di cedere al desiderio fuori dalla coppia.

E la povera protagonista finisce così presa in mezzo fra il marito (un Antonio Banderas tutto devoto alla causa dell’uomo nuovo, padre attento, marito gentile, ma aimé sessualmente incapace) che le urla il suo stupito dolore perché lei ha cercato in un altro quello che avrebbe dovuto trovare esclusivamente in lui (e stiamo parlando della base: un orgasmo), e una giovane assistente intrisa di girlpower che pretende da lei di essere un soggetto ispirante, integerrimo, e quindi, ça va sans dire, senza relazioni extraconiugali con giovani uomini a lei lavorativmente subordinati.

Rientrerà la nostra eroina nei ranghi, allontanando il piacere proibito, ritornando a essere moglie e madre e datrice di lavoro modello? Poco importa, il punto è che un film che vorrebbe essere perturbante finisce per proporre una generazione di cinquantenni alla deriva che delega il ruolo di guida (sessuale, comportamentale, etica) a una gen Z a cui viene scaricato il compito di non poter avere, loro, nessuna crisi esistenziale.

In quella sono già troppo occupati i loro genitori.