Fuori concorso

Bestiari, erbari, lapidari di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti

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Massimo D’Anolfi e Martina Parenti continuano a guardare il mondo, a interrogarlo. Cercano di capire, si soffermano a lungo su luoghi, persone, azioni. Lo hanno sempre fatto, e in quest’ultimo film il loro sguardo è ancor più ostinato e intelligente, proprio in senso etimologico: filmare vuol dire indagare, raccogliere, scegliere. Come sempre il loro cinema è pazienza, meticolosità, tempo trascorso appostati sulla realtà, per sperimentare in prima persona la frizione tra ciò che accade e la sua riproduzione. Ogni film non solo ritorna, attraverso tragitti sempre diversi, sul problema dello sguardo del cinema, ma ha una fascinazione peculiare per le azioni, per il funzionamento dei meccanismi e degli organismi, per la memoria delle cose e delle immagini.

Bestiari, erbari, lapidari è l’ennesima interrogazione del mondo, scandita in tre capitoli che a loro volta sono mondi: il mondo animale, quello vegetale, e quello inanimato della pietra e del cemento. Una scansione molto nitida, dal sapore enciclopedico e positivista. Ciascuno dei capitoli però dialoga con gli altri ed è anche articolato in una dialettica interna, fatta di riverberi e di associazioni libere e puntuali al tempo stesso.

Bestiari è una visione emozionante e dolorosa. Dalla fascinazione del cinema delle origini per lo studio del movimento degli animali, agli animali “nostri contemporanei” sui tavoli operatori dei veterinari. Dalle immagini remote in cui chi filma può essere anche chi spara (to shoot in inglese ha peraltro questo doppio significato), a quelle delle gabbie dello zoo, delle volpi prigioniere e sorvegliate come in un campo di concentramento, di una piccola tigre in un’incubatrice. Ciascun frammento di cui è composto questo primo capitolo è prezioso, toccante, e talvolta disturbante, come lo sono i versi degli animali che ne compongono il paesaggio sonoro. Le immagini in movimento di queste “creature senza biografia” – come le definisce Sophia Gräfe che, con Francesco Pitassio, guida la visione dei filmati d’archivio – sono documenti di un rapporto di potere, di paura e fascinazione, di scoperta e sottomissione. Indagare la relazione uomo-animale e mostrare come questa sia stata mediata dal cinema, significa toccare temi molto attuali fuggendo ogni retorica – ma avendo le prove, che sono poi le immagini stesse, peraltro bellissime.

Dai corpi e dal movimento degli animali, nel capitolo Erbari il film si posa lieve su un luogo antico e pieno di sapere, l’Orto botanico di Padova. Il lavoro che non si vede, di cui non sappiamo nulla – la manutenzione e la cura delle piante e del giardino, le analisi e le colture – occupa il tempo lento delle stagioni che passano, delle piante che vivono, e crescono, immobili eppure sempre in movimento. Vediamo laboratori, serre, antichi erbari, ipnotiche sequenze di film scientifici e udiamo la voce over di una lezione in cui un professore guida noi, e i suoi studenti, a considerare l’importanza di ciò che diamo per scontato, ovvero le piante.

Dalla quiete quasi religiosa dell’Orto botanico al fragore delle mine e del cementificio che apre Lapidari. Anche qui, come in un documentario industriale, vediamo il lavoro, e ciò che di solito non ci è dato di vedere – come si fabbrica il cemento, come si testa la sua portanza. Ma su queste immagini ruvide e fredde gradualmente si insinuano il passato e le ferite del Novecento attraverso una serie di assonanze, di echi visivi e rifrazioni, tra immagini di ieri e di oggi: l’Archivio Centrale dello Stato, i faldoni dei casellari giudiziari e alle foto di volti bellissimi di sovversivi, anarchici e comunisti, e poi il cemento frantumato dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, i cadaveri estratti da quelle macerie. La dialettica tra passato e presente, la forza delle immagini d’archivio e la ferma pacatezza e il rigore delle immagini di oggi, trovano nel finale una sintesi inaspettata e giusta, in cui tutto si tiene e la memoria, pur nella miriade di contraddizioni del mondo e della storia, trova finalmente un posto.

D’Anolfi e Parenti, come già nel Castello, in Materia oscura e in Guerra e pace, hanno una misura precisa di stile, mostrandoci come lo sguardo documentario possa essere vorace e al tempo stesso rispettosissimo, quasi pudico. Sanno lavorare sulle immagini senza mai prescindere da una continua interrogazione su come il cinema guarda e ha guardato il mondo, documentandolo e plasmandolo; E provano, con questo film, a sporgersi al di là di una prospettiva antropocentrica, senza mai rinnegare il valore della conoscenza e della Storia.