Concorso

Campo di battaglia di Gianni Amelio

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Una sinuosa carrellata all'indietro, in uno scuro inframmezzato dai rimbombi dei cannoni, precede un soldato mentre tasta decine di corpi accatastati in trincea. Ogni tanto recupera qualcosa dalle loro tasche, magari un pezzo di pane fradicio che addenta famelico: improvvisamente tra i cadaveri un braccio balza fuori, non tutti i morti sono morti.

È la prima scena, di straordinario impatto che anticipa e pre-dispone i toni di questo dramma morale all'interno di un dolore indicibile e collettivo. Campo di battaglia, di Gianni Amelio, “liberamente ispirato a La sfida di Carlo Patriarca”, appartiene a quel tipo di cinema classico e consuntivo che solo gli Autori “ormai” in età e in grado di padroneggiare la tavolozza della tecnica e delle emozioni possono osare.

Dopo la desolata processione delle truppe italiane in rotta da Caporetto («sono feriti e sbandati, non si festeggiano i perdenti» è il commento spietato del pasciuto borghese alla finestra), entriamo nell'ospedale intasato (il “campo di battaglia”) a conoscere i tre protagonisti, due dottori e una infermiera. L'altoborghese Stefano è ossessionato dalla disciplina sino a fare della caccia all'imboscato una missione, puntando a rimandare più gente possibile al fronte, non importa se monca, orba o sciroccata. Il tormentato e schivo Giulio vorrebbe invece darsi alla ricerca scientifica e prova nascostamente ad aiutare chi può a lasciare l'esercito, con mezzi illeciti (qualcuno lo ha soprannominato “la mano santa”) e anche potenzialmente dannosi: «li guardo e penso che li sto strappando a una grande ingiustizia». Tra loro Anna, infermiera cui il sessismo borghese ha impedito di laurearsi, rigida e inizialmente infervorata dal senso dell'abnegazione sino a rendersi intransigente.

Gli anni di università li han resi uniti e amici, ma con l'incombere della Spagnola, devastante epidemia mortale di cui non si conosce cura, il conflitto tra le diverse disposizioni d'animo avrà dolorose conseguenze personali: «Gli infettivi non dovrebbero stare con i feriti», «L'epidemia è una disgrazia, la guerra è un dovere!».

Tra gli elementi che risaltano in questa rigorosa messa in scena all'interno dell'“Inutile Strage”, diremo innanzitutto della capacità di Amelio di ricostruire quel passato il più possibile così come doveva essere: con i dialetti a mescolarsi e sovrapporsi che trovano solo nella sofferenza comune dei corpi una koiné collettiva, con la differenza lampante e odiosa tra il nazionalismo manipolatorio e mistificante della classe dirigente e degli organi di potere e la dolente passività dei sommersi destinati al sacrificio per conto terzi.

E poi la sorvegliata costruzione dello spettacolo, lucido e praticamente privo di crepe: dalla scelta dei set (immaginiamo la fatica del trovarli, immersi come siamo in una contemporaneità che ha tutto contaminato, scene di Beatrice Scarpato); alla musica (di Franco Piersanti) usata hollywoodianamente a sottolineare le emozioni, dalla pietas, all'angoscia; alla fotografia fatta di tagli di luce nello scuro degli interni o nell'azzurro livido degli esterni montani invernali (di Luan Amelio Ujkaj); al montaggio che lega con scorrevolezza le parti (di Simona Paggi). È il cinema del tempo che fu, classico e denso (e spero che si capisca che è un complimento).

Finiamo con gli attori, con il notevole lavoro sulle comparse e sui comprimari e con i tre protagonisti – Alessandro Borghi, Gabriel Montesi (e chissà che fatica per arrivare ad esprimersi, loro laziali, con più che accettabile cadenza veneta) e la trevisana Federica Rosellini – di impressionante impatto scenico.