Concorso

The Brutalist di Brady Corbet

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Il nuovo film dell’ambiziosa coppia formata dal regista ed ex attore Brady Corbet e dalla sceneggiatrice Mona Fastvold, nonostante nei crediti non venga mai dichiarato, è una libera reinterpretazione di La fonte meravigliosa, il romanzo del 1943 della scrittrice Ayn Rand (controversa ideologa del libertarismo americano), poi diventato un film diretto da King Vidor e interpretato da Gary Cooper. Protagonista è un architetto di nome Howard Roark ispirato a Frank Lloyd Wright, un superuomo inflessibile che non cede ad alcun compromesso. A un certo punto del racconto, l’architetto si vede approvare un rivoluzionario progetto modernista, ma a una condizione: una modifica che aggiunga alla facciata una spruzzata d’antico, una riproduzione del Partenone che va a minare la visionarietà del suo progetto. E fa saltare in aria tutto.

La situazione è ripresa in The Brutalist, per quanto il film si ambienti più avanti nel tempo, tra il 1947 e la fine degli anni ’50, e abbia come protagonista un architetto ungherese di origini ebraiche, il personaggio di fantasia László Tóth (uno straordinario Adrien Brody), che arriva negli Stati Uniti dopo essere sopravvissuto ai campi di concentramento e dopo essersi affermato in Europa negli anni ’30 come uno dei nomi di punta del Bauhaus. Accolto dopo varie vicissitudini da un tycoon della Pennsylvania (Guy Pearce), Tóth è chiamato a progettare un edificio polifunzionale che immagina come una gigantesca costruzione dalle linee pure, magnificamente alleggerita da fessure che rispondono a criteri di modulazione dello spazio e della luce. Il compromesso a cui Tóth deve cedere – lui che è inflessibile, idealista, individualista, ossessionato dalla libertà – è costruire una cappella cristiana. E non batte ciglio. Non ha altre opzioni, come dice alla moglie Erzsébet (Felicity Jones), anche lei uscita viva dai campi, per anni rimasta in Europa e arrivata in America grazie all’intervento del tycoon.

L’essenza di The Brutalist sta nella trasformazione del protagonista in un ebreo del dopoguerra, un uomo distrutto che, però, come dice egli stesso dei suoi edifici costruiti in Europa, è rimasto in piedi nonostante tutto, mantenendo viva la propria essenza. Le architetture che progetta sono come lui, che è alto, allampanato, sgraziato e parla un inglese da zotico: non hanno una funzione, esistono e basta, non cercano il dialogo col mondo. Semplicemente, il mondo lo racchiudono.

L’incontro tra l’essenzialismo delle creazioni di Tóth e il pragmatismo dell’economia americana, fondata sull’acciaio e sul cemento come dicono i filmati industriali d’epoca di cui il film è disseminato, porta a un patto che unisce leggerezza e pesantezza, astrazione e materia, arte e capitale, e trasforma l’America in una nazione oscena, in un mondo marcio, come dice Erzsébet, in cui domina ancora la legge del servo e del padrone e dentro il quale il disperato, tossico, folle Tóth non può far altro che sopravvivere.

La terra promessa per gli ebrei d’Europa sopravvissuti all’Olocausto in The Brutalist si trasforma così in un purgatorio di sofferenza e impotenza (Tóth è anche impotente, come il film sottolinea più volte), mentre l’altra terra verso cui altri ebrei si trasferiscono (ad esempio la nipote di Tóth, Zsófia, arrivata dall’Europa con Erzsébet), e cioè Israele, è un approdo impossibile per il protagonista. Tóth è un sopravvissuto che non sarà mai più vivo, un ebreo europeo che non sarà mai americano, simile a un personaggio di Isaac Singer e diverso sia dal contemporaneo Augie March di Bellow sia dal successivo Mickey Sabbath di Roth.

La parabola del protagonista di The Brutalist, tra orrore e bellezza, elevazione e dannazione, traccia una possibile storia della lotta tutta americana tra spirito e materia, tra storia e idealismo. Le ambizioni di Corbet sono per questo enormi, e così è lo stile del suo film, girato in 70mm Vistavision (ma proiettato irrimediabilmente sfocato, non si capisce per colpa di chi o cosa), lungo tre ore e mezza, diviso in tre capitoli più un prologo, un intervallo e un epilogo ambientato alla Biennale di Venezia del 1970, con la camera perennemente mobile a inseguire i personaggi o ad abbandonarli in campi lunghissimi, con un talento a tratti stupefacente per la capacità di immergere lo spettatore nello spirito del tempo, nei colori e negli umori dell’America uscita vittoriosa dalla guerra.

In The Brutalist c’è tanto, tantissimo, e il suo problema è proprio la gestione di un materiale affascinante e sconfinato. Più che il grande regista che vorrebbe essere, Corbet è un talentuoso assemblatore, ha il dono della visionarietà ma gli manca quello della sintesi. Come altri autori di oggi (Miguel Gomes, ad esempio, per quanto a un livello superiore) non sa o non vuole tirare le fila del suo discorso, ammassa, ripete, disperde, perde tempo in frange di scene eccessive, e il senso del suo film lo dissemina e lo disperde in una marea di dialoghi illuminanti ma sconnessi, sequenze con eccesso di piani d’ambientazione e accompagnamento musicale, dettagli non approfonditi, pezzi di bravura e insieme di inusitata volgarità (la sequenza ambientata a Carrara, visivamente straordinaria e narrativamente più che discutibile).

Il modello di The Brutalist è chiaramente il cinema di PT Anderson: dentro vi si trovano Il petroliere, The Master, Il filo nascosto, ma a Corbet manca la capacità di dare forma al suo materiale, di distillare e decantare una messinscena che risolva dentro le sue immagini – e non in un fuoricampo di reminiscenze letterarie, artistiche architettoniche, pubblicitarie, cinematografiche che finisce sempre per invadere lo schermo – le proprie contraddizioni e forze contrastanti. Il suo film potenzialmente straordinario diventa perciò una creatura multiforme, mostruosa e non funzionale: un edificio unico che al suo interno nel contiene altri, come progetta di fare Tóth con la sua mastodontica creatura, che rinuncia però all’essenzialità.