Concorso

The Room Next Door di Pedro Almodóvar

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The Room Next Door è un film di cui è difficile dire perché dice tutto da solo, e con tale sublime eleganza e intelligenza da poter far sentire inopportuna qualunque parola in più. Al suo primo lungo in lingua inglese, Pedro Almodóvar ritrova Tilda Swinton che aveva già diretto in quella piccola perla che è The Human Voicee come già succedeva allora le consegna il film; non è sola, però, questa volta, perché è una sfida che accoglie e condivide con Julianne Moore in uno scambio che di quadro in quadro si struttura e prende forma attraverso i dialoghi fittissimi che quasi senza soluzione di continuità accompagnano lo spettatore mentre i corpi e i volti delle due attrici occupano lo spazio in una modalità che avvicina la messa in scena al teatro da camera, proprio come succedeva nell’altro corto americano del regista, Strange Way of Life. Ma se nei due corti Almodóvar giocava con le star del cinema americano divertendosi tra Cocteau e il western, qui, con The Room Next Door il gioco passa a un livello successivo.

Adattando il romanzo What Are You Going Through di Sigrid Nunez, Almodóvar racconta la storia di Martha e Ingrid, amiche di vecchia data, colleghe in una rivista d’avanguardia nella New York degli anni Ottanta, allontanatesi, come capita, senza motivo per via degli impegni e di come vanno le cose. Ingrid è diventata una scrittrice di successo, mentre Martha, reporter di guerra, è ora gravemente malata. Quando Ingrid lo viene a sapere va a trovare Martha in ospedale le due si riavvicinano.

La prima parte del film è uno di quei racconti à la Almodóvar, dove una chiacchierata tra vecchie amiche che si aggiornano sugli anni passati nel silenzio reciproco si trasforma in un racconto di funamboliche peripezie, con flashback che parlano di guerre, di abbandoni, di incendi, di figli, di amanti, di sesso. È la vita che esplode nei racconti di Martha, pallida e magrissima, che dal letto della clinica avvolta in ampi maglioni viola e blu o carezzata da eleganti giacche da camera, racconta a Ingrid quello che è stato. Martha sembra stare meglio, esce dall’ospedale, torna a casa ma non sarà così per molto. Con la consapevolezza che la fine è vicina, Martha sa ora definitivamente che cosa desidera: morire con dignità. Con l’aiuto di Ingrid. Dai racconti avventurosi che portano lo spettatore fuori dalla camera di ospedale per tuffarlo nel consueto sistema affabulatorio almodovariano in cui le storie hanno dentro altre storie che suggeriscono altre storie in un’infinità di pop up che si aprono e si chiudono per dire e ridire dell’ampollosità barocca e irresistibile della vita, si passa a un’altra fase: la pianificazione della propria morte da parte di Martha. 

E qui Almodóvar compie il primo passo verso la sublimazione. Quando Martha lascia la clinica e torna a casa fermamente decisa a organizzare la propria dipartita, la messa in scena si fa infatti più sintetica e il melodramma viene silenziato, disinnescato. Il passato rocambolesco sparisce dalle immagini, niente più flashback, niente più storie, niente più tortuosità ma un lucido e metodico piano che prende forma circondato dei segni di quella vita dalla quale la donna sta per congedarsi.  Mobili, oggetti, libri, taccuini, film, fotografie, scatole, buste, fogli, tutto nella casa è traccia e sedimento, memoria senza mai nostalgia: la casa è li, accogliente, avvolgente come un abbraccio discreto. Ma non è li che Martha può morire. Ci vuole un’altra casa e una altro passaggio della messa in scena verso un’ulteriore asciuttezza, verso un’ulteriore svuotamento, verso un’ulteriore essenzialità. Così Martha e Ingrid possono abitare insieme solo un nuovo spazio, uno spazio altro dove non c’è memoria, minimale ma non asettico, elegantissimo, ricercatissimo, ma dove nulla è personale o familiare: solo superfici, linee, vetrate, pieni, vuoti, dove i colori possono essere solo pieni, dove non ci sono sfumature, dove le porte possono essere solo aperte o chiuse, definitive. E dove la morte può diventare un magnifico quadro composto con precisa meticolosità al momento giusto.

In quegli spazi che mutano, in quella scena che si asciuga, in quelle parole che dicono tutto senza mai pesare, Almodóvar trova il compimento di un vero capolavoro, una lezione di cinema, di regia, di messa in scena, di scrittura. La grande lezione di un maestro per nulla senile, ma capace come nessuno di parlare con umanità e magnificenza della vita e della morte dicendo tanto del mondo strambo in cui viviamo, di dignità e di diritti, di minacce e di speranza, di sofferenza e di bellezza, di amicizia e di condivisone, di responsabilità e di empatia, di rispetto e di autodeterminazione.