Graham Greene, una scheggia di ghiaccio nel cuore

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Lo scorso 2 ottobre è caduto il centoventesimo anniversario della nascita del grande scrittore inglese Graham Greene. Scopo dichiarato della sua narrativa è il «suscitare nel lettore la simpatia verso quei personaggi che ufficialmente non hanno diritto alla simpatia». Le opere di Greene sono popolate da preti spretati, da cinici alcolizzati, da gangster psicotici, da uomini e donne alla deriva, o più semplicemente disillusi dalla vita, e tuttavia alla ricerca di una qualche consolazione se non redenzione, descritti con una certa umana simpatia ma sempre con quella «scheggia di ghiaccio nel cuore» che lo stesso Greene considerava indispensabile a ogni scrittore. Greene, che ebbe un più che proficuo rapporto con il cinema (oltre ai film tratti dai suoi romanzi, fu anche critico cinematografico e sceneggiatore), è stato omaggiato nel 2001 da una ricca retrospettiva curata da Emanuela Martini per Bergamo Film Meeting. Tullio Masoni, per «Cineforum» (n. 405, giugno 2001), ne ha poi scritto un saggio-resoconto che qui riproponiamo.

 

 

«Cineforum» n. 405, giugno 2001

 

Primo Piano Graham Greene

L'avventura del Libero Arbitrio

 

Tullio Masoni

 

«Quando descrivo una scena, cerco di catturarla con lo sguardo in movimento della macchina da presa piuttosto che con l’occhio del fotografo – che la lascia congelata. È esattamente in questo senso che penso il cinema mi abbia influenzato. Scrittori come Walter Scott e i vittoriani furono influenzati dalla pittura e costruirono i loro sfondi come fossero fermi e venissero dal pennello di un Constable. Io lavoro con la macchina da presa, seguendo i miei personaggi e i loro movimenti» (Graham Greene, citato da Emanuela Martini in Uno scrittore in vendita. Graham Greene e il cinema, Bergamo Film Meeting, 2001).

Benché Greene si sentisse vicino alla pratica dell’operatore o del regista, non ebbe mai la superficialità o la presunzione di confonderle con quella del letterato. Lo scritto col quale presentava, nel 1950, Il terzo uomo – un racconto, come sappiamo, pensato appositamente per il cinema – appare anche oggi come una sintetica quanto lucida e indispensabile riflessione sulle affinità fra narratore e cineasta, ma anche sulle loro nette differenze. «Per il romanziere», sottolineava Greene «il suo romanzo è la cosa migliore che egli possa fare con un determinato soggetto: e non può fare a meno di sentirsi infastidito dalla maggior parte dei mutamenti che si rendono necessari per trasformarlo in un film o in un dramma; ma Il terzo uomo non si era mai sognato di essere niente di più del rozzo materiale per un film. [...] Il film, infatti, è meglio del racconto perché, in questo caso, rappresenta appunto l’ultima stesura, l’ultimo stadio, il più perfezionato, del racconto».

Sia per le premesse che per il testo in sé – oltre che per i modi concreti con cui l’impresa cine-romanzesca fu portata a termine – Il terzo uomo spiega la vocazione moderna dello scrittore, e lo fa, credo, offrendo varie chiavi di lettura. Essere moderni, in particolare nel XX secolo, ha significato anche modificare dall’interno la forma classica o, che è quasi lo stesso, usare con nuova libertà le sue regole. […] Greene non si ferma a questo, come proverò a spiegare più avanti; l’ibrido particolare entro cui concepisce il proprio stile, ha infatti il pregio supremo della inafferrabilità e, a mio modesto parere, sa approfondire i propri temi più di quanto non faccia il “capolavoro”, pur amatissimo, sceneggiato con Carol Reed. Il terzo uomo in pellicola è senza dubbio opera singolare e intrigante, costruita su intenzioni spericolate: «Grandangolo ininterrotto», osserva Emanuela Martini «primi e primissimi piani sghembi, ombre che assumono proporzioni gigantesche, un’aria di gotico rovinato, di espressionismo disfatto, passato già da tempo alla revisione del noir americano» e tuttavia, rivisto a distanza dopo il restauro, può lasciare la stessa impressione data a suo tempo: un artifizio fin troppo calibrato, una imitazione fatalmente fredda, una abilità spesa in superficie anche quando, come nel finale, il tono ambiguo prescelto è fra i più indovinati.

Ben diverso, credo, e in chiave di freddezza ricercata, era stato un anno prima l’esito di Idolo infranto. Là gli spazi artificiosi, entro i quali veniva complicandosi il rapporto fra il bambino e gli adulti, restituivano davvero una ”vitalità” malata, aprivano lacune fra esseri e cose, davano il senso di un conflitto insolubile quanto desolato, e di una sofferenza misurata su una verità irrecuperabile. In altre parole quella del Terzo uomo mi sembra una inafferrabilità esposta manieristicamente, dunque già detta nelle prime inquadrature, mentre la inafferrabilità di Idolo infranto agisce per scavo e in penombra.

Altra sarà, per restare alla collaborazione fra lo scrittore e Carol Reed, quella di un film tardo come Il nostro agente all’Avana, uscito nel 1960 in pieno fermento castrista. Se Idolo infranto sondava il male fra i chiaroscuri, fungendo quasi da retroscena allo sghembo ma palesato melodramma del Terzo uomo, Il nostro agente all’Avana cerca nei toni di commedia una nuova e forse più veritiera coerenza.

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Goffredo Fofi distingue, nell’opera di Greene, i novels, cioè i romanzi di impegno, dagli entertainments. A questi ultimi, alla loro esplicita finalità “di consumo” e alla spregiudicatezza verso modi e generi, egli dà la preferenza: «Va detto che i novels di Greene, quelli che lui chiamava così, sono in generale cose molto meno interessanti dei suoi entertainments: religione e psicologia, tormenti di coppie, cose da manuali per confessori, libri noiosissimi… Tanto è vero che se ne rese conto anche lui e smise di proporre questa distinzione chiamando tutti i suoi libri novels. L’elemento entertainment non significa affatto che Greene rinunci alle sue problematiche psicologico-religiose, però gli permette di inserirle in storie godibilissime, di grande suspense e azione. Ed era ovvio che il cinema si impadronisse di questi romanzi».

Quanto dicevo a proposito del Nostro agente all’Avana di Reed rientra in uno schema simile. Certo il romanzo La fine dell’avventura (ripubblicato più tardi col titolo Fine di una storia), per fare un esempio di segno contrario, rientra nella categoria dell’impegno spirituale conclamato ed è un libro affascinante – ha offerto spunto sia per un melodramma di media portata come quello realizzato da Edward Dmytryk (La fine dell’avventura) nel 1955 che per l’ottima ripresa di Neil Jordan (Fine di una storia) di due anni orsono – tuttavia, sulle grandi potenzialità degli entertainments, debbo convenire.

Essi vantano una peculiare attitudine cinematografica, ripeto, ma definiscono anche, o scoprono con sorpresa, “luoghi” adatti alla problematica morale. Se nella sua commedia cubana Carol Reed rinuncia alle oliature, ai raffreddamenti e alle canoniche geometrie che erano state del Terzo uomo, non credo ciò avvenga soltanto per le ovvie differenze di latitudine: la vicenda comico-satirica, quel perdere e ritrovare, quell’abbandono un po’ fatalista e un po’ indolente, rispondono meglio, forse, alla visione greeniana di Dio e dell’uomo. Per gli entertainments Fofi adopera il termine “avventura” e a sua volta chiama in causa la modernità; ma le due cose, probabilmente, assumono rilievo speciale se poste nella prospettiva di un ulteriore contrasto: quello fra scelta e destino, o se si preferisce, fra Grazia (il caso) e Libero Arbitrio.

Il cattolicesimo dello scrittore, pur così dichiarato, non va inteso attraverso l’ortodossia. Direi che in esso trova conforto il bisogno della scelta contro il determinismo protestante (tanto più se si pensa al carattere “secolare” della Chiesa Anglicana, alla cui tradizione Greene era legato prima di convertirsi) e che, tuttavia, il peso della fatalità vi resta percepibile. Sembra quasi una alternanza, una lotta senza quartiere dove la fisionomia della Grazia e i luoghi nei quali la Grazia medesima deve manifestarsi, si smarriscono in una sorta di inesausta vertigine. In altre parole potremmo definire il cattolicesimo di Greene secondo dialettica, o anche come essenza di un gioco fenomenologico che tanto si diffonde nella sfumatura e nel dettaglio, quanto fatica ad attestare il senso dell’insieme: «Nelle interviste», ha osservato Paolo Bertinetti «nelle dichiarazioni pubbliche, nelle stesse pagine autobiografiche Greene trattò rapidamente e con nonchalance la propria scelta religiosa: vuoi per legittima difesa contro coloro, giornalisti, critici, ma anche comuni lettori, che facevano della conversione il nodo centrale della sua opera letteraria, vuoi per un mutato atteggiamento che gli faceva dire di essere col tempo diventato un “cattolico agnostico”, uno che “non credeva ma che aveva fede”».

Dobbiamo, allora, parlare soltanto di libero arbitrio contro predestinazione? Forse no; forse la “vertigine umana” che lo scrittore riconosce e nella quale talvolta si perde, contempla in suprema espressione dialettica il Verbo incarnato, cioè l’avventura di un Dio che condivide la sorte dell’uomo e rappresenta sia la scelta che il destino. Un Dio concreto quanto possono esserlo le disordinate vicende umane, e inafferrabile nella ragione ultima. Anche questo, credo, spiega l’instancabile “internazionalismo” dello scrittore, la vena esotica dov’egli cerca furore e vaghezza, il fascino per un intrigo che sublima le convenzioni di genere in una sofferta testimonianza esistenziale e spirituale: «Nei suoi personaggi», ha scritto ancora Bertinetti «sono spesso gli aspetti negativi a prevalere, la viltà, l’indifferenza l’egoismo; ma in ultimo essi sanno pagare con il sacrificio il rispetto di ciò che ai loro occhi rappresenta quel poco che resta della loro dignità umana».

A questo punto non è difficile cogliere il nesso fra un certo tipo di scrittura (popolare per impatto, non certo per sostanza, nota sempre Bertinetti) e il cinema di genere rigogliosamente fiorito negli anni 40; direi di più: il cinema narrativamente evoluto in quanto tale. Alle storie di Greene esso ha offerto non solo una “incarnazione” che ha la prodigiosa immediatezza del gesto creatore, ma anche e soprattutto la propria fondativa impurità. Davvero una “avventura del Libero Arbitrio,” che assimila la fatica di Dio con quella dell’uomo, stabilendo come punto di contatto certo senso comune, certa medietà convenzionale.

In ciò – e Fofi lo ha colto con mirabile efficacia – sta la differenza fra Greene e Fritz Lang, un altro grande che ha saputo e voluto impastare la propria autorialità con gli standard del cinema medio: «È come, in definitiva», concludeva il critico nel già citato intervento «se Greene credesse nel libero arbitrio e Lang no; e se Greene credesse nella possibilità dell’uomo di intervenire nella storia per modificarla, nonostante tutto, e Lang no».

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Resta, ora, solo una domanda: la straordinaria affinità fra lo scrittore e il mezzo “traspositivo” a lui più congeniale, ha dato alla storia del cinema un corpus di proporzionato valore? In altri termini: le potenzialità fin qui individuate trovano una reale e solida rispondenza?

Fatto un nuovo esame si potrebbe dire di no. Vi sono, certo, oltre ad alcuni già ricordati, titoli notevoli come Prigioniero del terrore (proprio di Lang, 1944), o Went the Day Well? (di Cavalcanti, 1942), ma in generale l’impressione è che i film restino qualche palmo sotto l’ispirazione greeniana, e, in certo modo, paghino l’impurità sul meno. Un confronto meccanico fra testo – soggetto o sceneggiatura – romanzo e film sarebbe gratuito e poco rispettoso; semmai varrebbe la pena di confrontare l’altezza raggiunta a distanza fra gli uni e gli altri. È un confronto al quale riesce difficile sottrarsi, e che magari andrebbe approfondito proprio sulla scia dell’elaborazione fatta da Greene nel brano introduttivo al Terzo uomo.

Per adesso basti fissare quanto ha scritto Emanuela Martini nella sua introduzione al Catalogo della rassegna; lo spunto mi sembra ricco e merita di essere riportato quasi per esteso a mo’ di postilla conclusiva: «Questa tristezza dell’osservatore in qualche maniera “separato” dalle cose (che in un capolavoro, il romanzo Un americano tranquillo, si trasforma nella volontà di Fowler il reporter di non prendere mai posizione – come fece invece Greene nella vita, sempre schierato, spesso provocatorio anche se riuscì bene a mascherare le tracce del suo eventuale doppio o triplo gioco) è forse l’elemento che va perduto in molte delle trasposizioni da Greene, indipendentemente dalla partecipazione dello scrittore alla sceneggiatura. I suoi racconti e romanzi erano tanto “cinematografici” da prestarsi automaticamente a essere assorbiti dalle suggestioni dello schermo, soprattutto in nero. Il fuorilegge (1942) di Frank Tuttle (da Una pistola in vendita), Prigioniero del terrore (1944) di Fritz Lang (da Quinta colonna), Brighton Rock (1947) di John Boulting e sceneggiato dallo stesso Greene (da La roccia di Brighton), persino il minore Agente confidenziale (1945) di Herman Shumlin (da Missione confidenziale), hanno tutti uno spessore narrativo ed echi ossessivi che rendono giustizia tanto a Greene, quanto agli autori che li hanno diretti, quanto al genere nel quale si collocano. Ma spesso sono costretti (e Greene, quando fa lo sceneggiatore, ne è il primo, consapevole responsabile) a “limare” certe fisionomie, in qualche maniera ad abbellirle […] E, naturalmente, a velocizzare il racconto ed eliminare quell’ambivalenza sospesa, quella percezione di un altro sguardo (più razionale? più disincantato? semplicemente più solo?) che fa la bellezza e la profondità della prosa di Greene.