Un giorno dopo l'altro, un anno se ne va

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E anche questo 2024 è passato. Con tutto il suo bagaglio di cose, belle e brutte che siano, magari non distopico (come auguravamo che non lo fosse, sulla scorta di Strange Days di Kathryn Bigelow, un anno esatto fa)… O forse, un po' distopico lo è stato veramente (ai posteri, l'ardua sentenza). Comunque sia, eccoci ancora qua, a rivedere film. Questo capodanno ci ha ispirato di suggerire due classici ambientati nel periodo: L'ultimo capodanno di Marco Risi, opera corale da un romanzo di Ammaniti dal sapore vagamente altmaniano (come spiega Alessandra di Luzio nella sua recensione su «Cineforum» n. 372, marzo 1998, che qui riproponiamo); e l'altrettanto corale, ma ben più romantico Capodanno a New York (recensione di Simone Emiliani, «Cineforum» n. 511, ottobre/novembre 2012). Insomma, un buon 2025 a tutti voi!

 

«Cineforum» n. 372, marzo 1998

 

Filmese

L'ultimo capodanno

 

Alessandra di Luzio

 

Il complesso condominiale “Le isole”, ubicato sulla via Cassia a Roma, ospita i vari ambienti in cui è suddivisa la vicenda. È l'ultimo dell'anno, e tutti si preparano ad affrontare la serata di festa. Giulia prepara una cena per il fidanzato e gli amici; la portinaia Gina invita i colleghi di tutto il quartiere; suo figlio Cris festeggia con l'amico Ossa di Pesce e una bella scorta di droghe leggere; il gigolò napoletano Gaetano è invitato a un party esclusivo a casa dell'anziana contessa Scintilla Sinibaldi, dove è poi raggiunto dalla colorita tifoseria del Purchiano Terme reduce da una trasferta; l'avvocato Rinaldi diserta la vacanza familiare a Cortina per godersi un festino privato in compagnia della prostituta sadomaso Sukia; tre ladri si preparano a svaligiare un appartamento; la tranquilla famigliola Trodini mette a punto i fuochi d'artificio e gli innocui divertimenti del Capodanno; una donna tenta il suicidio ingurgitando barbiturici ma pentendosene subito dopo… Tutte le storie si sviluppano secondo un crescendo di follia ed esasperazione, e quando la festa comincia il sangue è già sgorgato a fiumi.

Il lungo racconto di Ammaniti da cui questo film è tratto è uno di quei testi che si presentano già belli e pronti per essere trasposti sullo schermo: scene separate, dialoghi ritmati tanto per la lettura quanto per l'ascolto, descrizioni calzanti, di grande immediatezza e facile visualizzazione, ottima caratterizzazione dei personaggi e degli ambienti. Dunque, la prima cosa che verrebbe da dire sarebbe: bello sforzo. Soprattutto se si tiene presente che Ammaniti ha coscritto anche la sceneggiatura. Ma sappiamo bene quante insidie si nascondono nei passaggi dalla narrativa allo schermo, anche per chi ha dimestichezza con questo genere di operazioni. Che non è certo il caso di Risi, abituato a lavorare più sulla cronaca che sulla fiction, più su situazioni di impatto realistico che sul grottesco o sul tragicomico. La trasposizione, in questo caso, per quanto bizzarro e insolito possa apparire a prima vista il connubio tra Risi e quella scrittura che in tempi recentissimi è divenuta oggetto di critica da parte di folte schiere di illustri commentatori delle belle lettere, dando adito ad attacchi ed elogi di inusitata veemenza, e che è stata definita, a seconda dei casi, come “pulp all'italiana” (o “all'amatriciana”), “spaghetti splatter” e soprattutto “letteratura cannibale” (dal titolo di un'acclamata antologia della Einaudi che raccoglie appunto racconti di giovani narratori di quotidiane atrocità), è di tutto rispetto, nel senso che tale è il rispetto nei confronti del testo di partenza che sarebbe risultato quasi difficile incorrere in grossi rischi. In effetti, una volta assemblato il cast e definite poche e scarne idee di regia, si può dire che il film si sia fatto da solo, senza con questo nulla togliere alla buona volontà del regista, il quale, essendo anche direttamente impegnato nella produzione, andrebbe elogiato in primo luogo per aver opzionato un simile soggetto, facile da inscenare ma piuttosto ostico da proporre al consumatore medio abituale di cinema italiano.

Il modello narrativo attorno a cui si costruisce il racconto (e di conseguenza anche il film) è identico a quello di America oggi. Anzi, per certi versi L'ultimo capodanno potrebbe apparire quasi un remake in piccolo del monumentale affresco altmaniano, a cominciare dalla storia di apertura: c'è un party tra amici, c'è una lite di coppia causata dal tradimento di lui ai danni di lei, e poi c'è lei nuda dalla cintola in giù che urla come un'ossessa… Insomma, il trasloco dalla California alla via Cassia non è poi tanto difficile, se lo scopo è quello di mettere in scena una situazione di tensione che cresce sempre più e che si intreccia con altre situazioni in cui dalla normalità più piatta si giunge a un parossismo di follia pura. Ma c'è una differenza molto netta: il film di Risi è essenzialmente una commedia, e fa ridere. Non vi è cinismo né cattivo gusto nell'uso del dettaglio macabro, e per quanto nero possa risultare l'umorismo, si tratta pur sempre di puro e semplice umorismo. Per esempio, prendiamo la gag della suicida in ascensore. Una donna decide di togliersi la vita la sera dell'ultimo dell'anno, sopraffatta dalla solitudine e dal dolore per la scomparsa del fidanzato tanti anni prima nelle giungle del Sudest asiatico. Dopo aver tagliato i fili del telefono e ingerito le pillole, che già cominciano a fare effetto, la donna riceve un telegramma in cui il suo uomo le comunica di essere stato liberato dopo lunga prigionia e di essere di ritorno per l'indomani. A quel punto la donna cerca immediatamente di farsi soccorrere, e striscia per i pianerottoli del condominio in cerca di aiuto. Nessuno le apre la porta. Si trascina fino all'ascensore. Qui viene trovata dai tre topi d'appartamento, che la scambiano per un'ubriacona e la dileggiano, finendo poi addirittura per usarla, quando ormai è mezza morta e assolutamente incapace di reagire, come comparsa per delle foto sadomaso con cui intendono ricattare lo stimato avvocato sorpreso in cuoio e borchie. Tutto ciò è tanto raccapricciante quanto esilarante, e lo scambio di battute in ascensore tra i ladri e la donna, che in realtà mugola senza riuscire ad articolare parola, è un momento di grandissima comicità. Niente di sofisticato, ovviamente, e che non rende affatto a essere raccontato. Perché è una comicità che nasce sì dal testo, ma che si colora di una serie di altre sfumature, dalle inflessioni regionali ai costumi alle scenografie. Insomma, una comicità fatta anche di atmosfere, di arguzie linguistiche e di pure incongruenze.

Tutti questi aspetti, come dicevamo, sono ben evidenti già nel racconto da cui il film è tratto. Ciò che di buono vi è stato aggiunto è senza dubbio il cast, un assembramento di ottimi interpreti e caratteristi che rendono onore ai virtuosismi della sceneggiatura incarnando pienamente quell'idea di grottesco verso cui tutto sembra convergere. I numerosissimi personaggi de L'ultimo capodanno sono dal primo all'ultimo dei freaks, tanto patetici quanto simpatici, e la comicità nasce proprio dalla loro assoluta e stralunata aderenza al proprio destino. Da questo punto di vista l'umanità finisce per essere raffigurata in chiave quasi verista, ma nondimeno esilarante. In altre parole, ciò che rende irresistibili le gag è il fatto che i personaggi sono estremamente seri, non ammiccano né ai loro interlocutori né allo spettatore, non ridono e non si divertono affatto, non si scambiano battute di spirito, ma si scambiano battute di dialogo che nella nostra lettura diventano di spirito. In definitiva il film di Risi risulta apprezzabile sotto diversi aspetti. Se qualche debolezza c'è, perché negarlo?, nella piattezza dello stile e nelle soluzioni registiche non proprio brillanti, la si può perdonare perché compensata dalla grande lucidità della resa narrativa, che fa sì che tutte le sottotrame inscenate, comprese quelle minori, rispettino alla perfezione il ritmo del racconto d'insieme. E se proprio vogliamo guardare ai particolari, lo strepitoso dialogo sulle olive ascolane, unito al flashforward sul cane tossicomane Ciro, ex agente della antinarcotici, ricompensa lo spettatore di qualunque trasandatezza della messa in scena.

 

«Cineforum» n. 511, ottobre/novembre 2012

 

Filmese

Capodanno a New York

 

Simone Emiliani  

 

Dal San Valentino di Appuntamento con l’amore all’ultimo dell’anno di Capodanno a New York. Quasi due film gemelli nella struttura, su sceneggiatura di Katherine Fugate, nelle frequenti ronde dove i personaggi sono come pedine incontrollabili di una giostra, negli incroci sentimentali, nelle forme del desiderio proprie del cinema di Garry Marshall, il quale si rifà alle commedie sentimentali statunitensi degli anni 50. Entrambi i film sono nel segno della moltiplicazione e del tempo, come se il cineasta riprendesse, all’interno dello stesso film, tutta una serie di figure che hanno popolato la sua filmografia: l’uomo d’affari Edward e la prostituta Vivian di Pretty Woman, il cuoco e la cameriera di Paura d’amare, la principessa di Pretty Princess e Principe azzurro cercasi, la donna in carriera che a un certo punto deve occuparsi dei figli della sorella in Quando meno te lo aspetti.

Ci potrebbe essere un’obiezione: rispetto al suo cinema precedente, queste vicende possono sembrare maggiormente frammentate e incompiute. Al tempo stesso, però, Capodanno a New York, in modo ben più convincente che in Appuntamento con l’amore, pone sensorialmente in uno stato di continua attesa. Mentre si sta assistendo a una singola vicenda, si immagina contemporaneamente ciò che nel frattempo sta accadendo agli altri personaggi, proprio in quel preciso istante. Quindi, volendo capovolgere il presunto limite individuato precedentemente, si può affermare che ogni microstoria può costituire di per sé il soggetto di un unico film. Secondo fattore: il tempo. Elemento che può essere fermato in un’attesa prolungabile soggettivamente all’infinito (la sfera che si blocca; i due ragazzi chiusi in ascensore; le due coppie in ospedale che aspettano l’imminente nascita dei figli), ma che al contrario è estremamente ristretto, e quindi da vivere fino all’ultimo istante (il fotoreporter di guerra sul letto d’ospedale); oppure che si rincorre, per paura di perdere l’incontro decisivo (la ragazzina adolescente che spera di incontrare il coetaneo per scambiarsi il primo bacio; l’uomo che sta tornando a New York nell’attesa di ritrovare la donna conosciuta nella stessa strada un anno prima); o, infine, che si riapre improvvisamente sul futuro (la dimessa assistente, in cui Michelle Pfeiffer riprende quasi il personaggio della cameriera di Paura d’amare, con la sua lista con i propositi per l’anno nuovo, che attraversa la metropoli con il fattorino Zac Efron, situazione degna di un film sperimentale muto).

Ha una strana e incantata magia, il cinema di Garry Marshall, qualcosa di sfuggente che potrebbe essere ambientato, senza alcuna modifica, cinquant’anni fa. Times Square si accende come un palcoscenico da musical, la sfera che deve calare diventa la preparazione della scenografia di un grande spettacolo a Broadway. Tutto è eccessivamente acceso, illuminato; un set da favola dove si reincarnano di continuo Cenerentola e la fioraia/dama Eliza (Audrey Hepburn) di My Fair Lady. Marshall guarda spesso a Cukor nelle sue frequenti declinazioni al femminile – basti vedere le “tre donne allo specchio” (figlia, madre e nonna) dell’inedito Georgia Rule –, anche se c’è una dichiarata consapevolezza dell’irripetibilità di quel tipo di cinema.

Al tempo stesso, si avverte la volontaria rinuncia ad avvicinarsi alla commedia contemporanea. Vengono esaltati i dettagli delle insegne pubblicitarie al neon, nell’illuminazione stordente di Charles Minsky (lo stesso direttore della fotografia di Pretty Woman, che ha più volte collaborato col regista), dove i colori si accentuano, si riflettono, si proiettano sulle superficie come fasci di luce che potrebbero proiettare, davanti agli occhi dei personaggi, le loro stesse storie tra verità e finzione, come già accaduto a Shirley MacLaine in Appuntamento con l’amore, mentre si riguardava giovane nella scena del bacio del suo vecchio film La tua pelle brucia. Il desiderio, però, può prendere forma anche attraverso una situazione realistica, come il sogno della spalla della rockstar Bon Jovi che si ritrova a cantare da sola in concerto. Marshall sa gestire diverse generazioni di attori (Robert De Niro, Michelle Pfeiffer, Hilary Swank, Abigail Breslin, Zac Efron, Katherine Heigl, Halle Berry, Sarah Jessica Parker, Ashton Kutcher), ritagliando loro l’adeguato spazio in un tempo che, all’interno del film, è già limitato. Riesce comunque a far emergere il cuore dei suoi personaggi, in una via di mezzo fra Pollack e Altman. Con i protagonisti sospesi tra un passato vissuto e un futuro incerto, e una parcellazione di storie in cui vi sono continui smarrimenti e nuovi incontri. Come quelli, così vecchi e così futuristici, di questo veterano di Hollywood.