La seconda personale della sezione Europe, Now! è dedicata alla cineasta belga Patrice Toye – già vincitrice qui a Bergamo della Rosa Camuna di Bronzo con il suo primo lungometraggio, Rosie, poco più di vent'anni fa. Occasione preziosa, dunque, per aggiornare la conoscenza del suo cinema che ha sempre lavorato sull'argomento della ricerca difficile e rischiosa dell'identità, muovendo le sue storie da contesti di partenza realistici, contaminati però dall'intrusione di toni onirici e surreali, gestiti con scelte di regia consapevolmente incuranti di una scrittura “benfatta”, rispettosa fino in fondo delle regole che permettono al racconto di procedere senza scosse come un meccanismo ben oliato. Guardando i suoi film, lo spettatore deve quindi porsi in una posizione interlocutoria e disponibile ad accogliere tutti i trasalimenti di una messa in scena che li rende tutt'uno, sul piano formale, con il tema che li pervade.
È, appunto, il caso di questo Nowhere Man (2008), storia di un quarantenne “interrotto”, ossessionato dal desiderio di abbandonare quella vita sociale e affettiva che chiunque altro potrebbe considerare come realizzata e appagante, ma nella quale Tomas, il protagonista, ha visto aprirsi una crepa invisibile a tutti. Tomas coglie al volo l'occasione casuale che gli permette di scomparire simulando la propria morte, e ripartire da zero in una nuova realtà lontana, ai margini della civiltà in cui ha vissuto finora. La libertà così conquistata esaurisce però in pochi anni tutta la sua forza d'attrazione e l'uomo si ritrova – come in sogno – sulla strada del ritorno. Senza tetto e senza averi di sorta, cerca la moglie che nel frattempo si è risposata.
A prima vista, la sensazione di déja-vu è indubbiamente forte. Per quanto riguarda l'ambito letterario, il soggetto richiama immediatamente quello del pirandelliano Fu Mattia Pascal, e d'altra parte la pulsione ad abbandonare tutto in cerca di una nuova realizzazione di sé, unita al fallimento che spinge al ritorno nell'illusione di ritrovare o recuperare ciò che un tempo è stato rigettato, attraversa molti film, dando origine a spunti narrativi, caratterizzazioni di personaggi e approcci formali differenti.
Patrice Toye non si lascia intimorire da tutta questa tradizione e, consapevole del fatto che tutto è già stato raccontato (in fondo non c'è qualcosa di questa storia già a partire dalle vicende di Odisseo?), decide di darne la propria versione. E lo fa procedendo per tocchi rapidi, accostati gli uni agli altri non tanto per infallibile consequenzialità quanto per impertinente curiosità di andare a vedere che cosa da questi accostamenti può scaturire, come si configura il vuoto in cui tutti ci muoviamo – ognuno di noi inseguendo con alterne fortune e diverso spirito i suoi fantasmi, i suoi azzardi.
Tomas pensa di rinascere dalle fiamme come una fenice, senza immaginare che un giorno si ritroverà a salutare una brutta copia di sé al di là del vetro di una finestra che avrà tutta l'aria di essere una sorta di specchio retroattivo. E neppure immagina che a salvarlo dal doppio naufragio (quello della sua prima esistenza normale e il secondo della sua esotica delusione) sarà proprio la donna – Sara – che egli ha voluto abbandonare in quanto emblematica rappresentante di una frustrazione esistenziale che si è illuso di lasciarsi alle spalle, in frantumi.
La strategia di Sara ha le caratteristiche del lavoro di un cineasta. Dopo aver individuato quale sarà il personaggio che Tomas sarà ora per lei, lo inserisce in un set che, in quanto tale, non potrà esistere che nella necessaria separatezza rispetto alla vita reale, quotidiana; investito dell'esclusiva funzione di oggetto desiderato – dal momento che quella di soggetto desiderante non gli può più appartenere poiché formalmente defunto – Tomas finisce così per oscillare senza soluzione di continuità fra presenza e assenza, destituito di ogni elemento di concretezza sociale e di ogni ruolo che non sia quello assegnatogli da Sara. Da questa posizione privilegiata, ironicamente ritrovata là da dove aveva voluto fuggire e per opera di colei che aveva voluto abbandonare, potrà finalmente essere personaggio e spettatore (la poltrona che si porta nell'appartamento...). Se non libero della libertà che credeva di inseguire, svuotato almeno di ogni ingombrante identità.